Jurassic World: Il regno distrutto, la recensione a freddo del film

Autore: Emanuele Zambon ,

"Sono dinosauri, sono già wow". Non ne siamo (più) tanto convinti. Non ce ne voglia l'Owen di Chris Pratt, ma T-Rex e soci hanno perduto parte del loro mostruoso fascino. Solo al cinema, s'intende. L'ennesimo tentativo di eguagliare i fasti del primo, indimenticabile, #Jurassic Park di Spielberg è fallito nonostante il regista J. A. Bayona abbia cercato in tutti i modi di dirottare una saga - che sembra procedere per inerzia e senza troppi guizzi - verso la sua idea di cinema costellata di segreti, dolori e incubi.

Sarebbe però troppo severo confrontare Jurassic World: Il regno distrutto con il capostipite del '93. Allora fu un fenomeno senza precedenti del cinema mainstream. Oggi è uno dei tanti (troppi?) esempi dello sfruttamento ossessivo di un franchise di successo da parte della major hollywoodiane. Però, rispetto al predecessore del 2015 firmato Colin Trevorrow, questo sequel è di gran lunga più coraggioso. Abbandona i binari sicuri dell'operazione nostalgia ampliando il (potenziale) raggio d'azione tematico della saga. Al centro, è ovvio, c'è sempre il rapporto morboso tra uomo e scienza, proiettato stavolta verso scenari futuribili più che fantascientifici.

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Peccato, però, che il twist narrativo più "WTF" del film si esaurisca in una battuta pronunciata dal villain di turno. Andiamo allora alla scoperta delle debolezze e dei punti di forza di #Jurassic World: Il regno distrutto, il secondo capitolo della nuova trilogia giurassica.

Terrore negli abissi

Tra i momenti più entusiasmanti di Jurassic World: Il regno distrutto vi è sicuramente l'incipit in notturna: una sequenza thrilling che rivela tutta l'abilità di Bayona nel far lievitare la tensione giocando con luci e ombre, introducendo due terrificanti predatori alpha che seminano il panico tra gli abissi e in superficie. Di colpo il regista spagnolo sembra riportare in auge il cinema avventuroso anni '70, quello in cui proprio Spielberg forgiò il suo talento. Impossibile, infatti, non pensare immediatamente nel buio della sala a #Lo squalo osservando un battello sottomarino procedere verso i resti dell'Indominus Rex ignorando una gigantesca e minacciosa ombra.

La saga sembra riassaporare il gusto per il terrore del primo Jurassic Park. Ma il cortocircuito estetico/emotivo dura un battito di ciglia, perché la pellicola immediatamente si ridesta dalle suggestioni spielberghiane per radunare i protagonisti del primo Jurassic World del 2015 e incastonarli in una sottotrama da disaster movie in cui lo spettatore è costretto ad un'indigestione di sauri in fuga perché minacciati dal vulcano di Isla Nublar.

Per metà film, Jurassic World: Il regno distrutto recupera parte delle soluzioni di trama de Il mondo perduto (la spedizione sull'isola) e del terzo capitolo del 2001 (il "si salvi chi può" tra il fitto della giungla e le radure). Poi avviene la svolta: le vicende prendono una piega da dark thriller con tanto di cospirazione mondiale e, nei minuti finali, c'è spazio per l'horror casalingo tra i cunicoli e gli ascensori della mega tenuta di Sir Lockwood.

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A differenza del prologo, però, la parte conclusiva non riesce a sprigionare la stessa angosciosa sensazione di attesa dell'inevitabile, nonostante la presenza in scena dell'Indo-Raptor - un ibrido che non fa che ripetere movenze e ragionamenti del Velociraptor (vedi il tic dell'artiglio oppure l'armeggiare con le maniglie) - e una serie di trovate che strizzano l'occhio al primo Jurassic Park (la piccola Maisie "imita" il gesto di Lex tentando di chiudere la serranda del montacarichi).

La deriva gothic imposta da Bayona tra le mura di una magione sembra quasi un corpo estraneo, un tentativo estremo di far virare la saga verso nuovi lidi. La svolta narrativa più interessante, come anticipato, è quella relativa ai natali della piccola di casa Lockwood (questo sì, sembra davvero un tocco alla Crichton). Inspiegabilmente, il resto della sceneggiatura ignora completamente quella che è a tutti gli effetti una delle rivelazioni più clamorose dell'intero franchise, che avrebbe di colpo aperto a nuovi, incredibili, scenari.

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È chiaro allora che non è la regia di Bayona a deludere, bensì l'impianto narrativo, incapace di donare spessore a personaggi stereotipati (l'action man, il cacciatore bianco, il nerd pavido), un difetto congenito della saga a partire dal 2001 in poi. 

Salvando i primi minuti, un paio di scene commoventi e diversi momenti da blockbuster puro, cos'è - oltre ad una sceneggiatura approssimativa - che non funziona nel nuovo Jurassic World? 

In primis è mutato il nostro rapporto con le creature preistoriche del cinema. Nessuna sequenza ci ha fatto più rabbrividire come l'uscita dal recinto del T-Rex sotto la pioggia oppure i Raptor nelle cucine. Il motivo? Abbiamo familiarizzato con i dinosauri. La loro presenza non impone più lo stare a bocca aperta dallo stupore. Quanto al terrore, a partire da Jurassic World i predatori sono stati dipinti (anche) come salvatori oppure come alleati. Jurassic World: Il regno distrutto fa di più: in nome di un messaggio animalista (nobile intento, sul serio), la pellicola porta lo spettatore a empatizzare con questi giganti del passato. Li osserviamo infatti in pericolo o, peggio, in balia di mercenari spregevoli che intendono venderli all'asta al miglior offerente. Soffrono terribilmente, stipati come sono in gabbie mortificanti. Questo aspetto del film conduce inevitabilmente ad un nuovo status per i dinosauri al cinema: non più (o non solo) mostri da cui fuggire, ma animali da proteggere. Cade di conseguenza gran parte del loro appeal horror.

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C'è da dire poi che la presenza in scena dei lucertoloni è aumentata in modo esponenziale in questi anni. Perché all'epoca terrorizzò così tanto il pubblico il primo Jurassic Park? Perché le creature estinte da milioni di anni comparivano sullo schermo per un totale di 15 minuti. Ma il senso di minaccia, di panico assoluto, avvolgeva l'intera pellicola a partire dal momento in cui Alan Grant realizzava di tenere tra le mani un cucciolo di Raptor.

Oggi, ormai, la situazione si è completamente rovesciata: abbiamo avuto dinosauri a mo' di pony, carnivori ammaestrati e così via. Tanti, forse troppi lucertoloni sullo schermo. "I dinosauri e l'uomo... due specie separate da 65 milioni di anni di evoluzione, vengono a trovarsi gettati nella mischia insieme: come potremo mai avere la benché minima idea di che cosa possiamo aspettarci?". Ricordate le parole di Grant (Sam Neill) nel film del '93? Ecco, la saga di Jurassic Park ha ormai esaurito le risposte, fugando sì i dubbi del paleontologo ma pure quelli del pubblico. Non avevamo idea ai tempi di cosa volesse dire far interagire umani e dinosauri. Oggi le creature del mondo perduto vengono accarezzate, salvate (pensate, all'epoca del primo Jurassic Park, che shock l'immagine di un Raptor curato con amorevolezza).

In questi anni il tocco più giurassico del cinema lo ha forse avuto il Godzilla di Gareth Edwards (splendida la scena dell'attacco al treno da parte dei M.U.T.O.), a cui la trilogia di Jurassic World farebbe bene a guardare recuperando un concetto caro già a Spielberg: quello di monster movie. Per farlo, dovrebbe tuttavia smettere di essere concepita come una serie di film adatta (soprattutto) ai più piccoli e per questo priva di immagini raccapriccianti. In fin dei conti, Jurassic Park affascinò all'epoca proprio i bambini. Eppure in una scena compariva un braccio mozzato dell'ingegnere informatico Arnold impersonato da Samuel L. Jackson.

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