I migliori film tratti dai libri di Stephen King: la classifica

Autore: Chiara Poli ,

Premessa: vista l'impresa già titanica di suo, era necessario mettere dei paletti.

Niente serie TV 

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Niente film per la TV 

Film, nel senso tradizionale del termine. Rigorosamente film. Film tratti dalle opere del Re, il Maestro indiscusso dell'horror. Che ha scritto dei capolavori letterari e ha ispirato dei capolavori cinematografici.

Ecco la mia sudatissima (ci ho messo una vita non solo a selezionare i titoli, ma anche ad assegnare le posizioni in classifica...) top 10 fra i moltissimi film tratti dai romanzi o dai racconti di Stephen King.

Fatta tanto di testa, da critico cinematografico, ma anche un po’ di cuore e un po’ di pancia.

10. Cell

Ho letto il romanzo tanti anni fa, durante le vacanze di Natale. Al contrario di molti fan di King, come ho poi scoperto in rete, a me è piaciuto subito.

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Ancora adesso, a dirla tutta, non condivido le critiche mosse al romanzo: per me costruiva un’atmosfera molto efficace.

Sì, il finale probabilmente non era all’altezza di tutto il resto, ma alla fine l’ho trovato coerente. Ciononostante, mi sono accostata al film con John Cusack e Samuel L. Jackson con un certo scetticismo. Vuoi anche per i voti bassissimi affibbiatigli da chi l’aveva già visto. In effetti dovrei smetterla di basarmi sulle recensioni altrui, perché a me Cell è piaciuto. Anche al cinema.

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Credo sia stato in grado di restituire l’atmosfera angosciante che pervade l’intero romanzo, ma soprattutto di sottolineare l’efficacia e gli effetti devastanti della trasformazione di un oggetto di uso comune in un’arma. Un telefono cellulare trasforma le persone in assassini assetati di sangue, ecco il punto. Lo stesso telefono cellulare che ciascuno di noi ha accanto a sé proprio in questo momento.

L’immaginazione di #Stephen King - che come sempre ha anticipato i tempi - si concretizza in una pellicola ricca di azione e tensione, con due interpreti perfettamente in parte e una buona dose di effetti speciali spettacolari (indimenticabili le scene di massa).

9. The Mist

Tratto da un racconto della raccolta “Scheletri”, il film di #Frank Darabont (The Walking Dead) - da non confondere con la pessima, omonima serie TV - ha due grandissimi pregi.

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Innanzitutto è costruito “sul nulla”: il clima claustrofobico, perfettamente riuscito, che attanaglia i personaggi rintanati in un negozio per sfuggire ai mostri che si nascondono nella nebbia non ha bisogno di molto.

La paranoia, il terrore, lo scetticismo, i contrasti e il delirio religioso sono sufficienti a creare l’atmosfera. Non a caso, il film non ha richiesto chissà quali effetti speciali: le creature celate dalla nebbia si vedono solo sporadicamente. Come in The Fog, è la nebbia a farla da padrone. Molto più dei mostri che nasconde.

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Il secondo - e non meno importante - pregio è il finale.

The Mist è uno dei rari film (anche nel genere horror) che non solo non ha un lieto fine, ma addirittura si prende gioco del dolore, del sacrificio, dei tentativi di sopravvivere che hanno costituito la spina dorsale del racconto. Se ne prende gioco in modo spietato, crudele e amaro. Una manciata di minuti, anzi, di secondi, e tutto sarebbe stato diverso. Un colpo da cui è difficile riprendersi.

8. La zona morta

Christopher Walken: l’attore perfetto per interpretare Johnny Smith e la sua vita distrutta da quel dono-maledizione che è la capacità di prevedere il futuro delle persone.

Perché quando quel futuro finirà per rovinare il mondo e tu lo sai, non puoi far finta di nulla.

Ho ancora quella primissima edizione economica del romanzo, dalla copertina ormai logora e dalle pagine ingiallite, che è stato uno dei primi che abbia mai letto di Stephen King, se non addirittura il primo.

E ho ancora in mente - a distanza di quanti, trentun anni? - le sensazioni che ne scaturivano: disagio, impotenza, frustrazione… Le stesse sensazioni magistralmente rievocate dal grande David Cronenberg nella sua trasposizione cinematografica.

Nonostante l’età (il film è dell’ormai lontano 1983), La zona morta mantiene intatte le caratteristiche che l’hanno fatto grande: la capacità di scavare dentro la mente di un uomo e di contagiare il pubblico con la sua visione del mondo.

Anche grazie a un cast di primo livello (oltre a Walken ci sono Martin Sheen, Tom Skerritt, Herber Lom, Brooke Adams…).

7. Stand by me - Ricordo di un’estate

Da "Stagioni diverse", ecco il racconto di formazione - genere in cui King è indiscusso punto di riferimento - si trasforma nella storia di come un gruppo di ragazzini affronta la vita, la paura, l’orrore (nemmeno troppo celato) della crescita.

Un grande regista (Rob Reiner, Harry ti presento Sally) e un grande cast (Will Wheaton, River Phoenix, Jerry O’Connell, Corey Feldman, #Kiefer Sutherland, Richard Dreyfuss…) ci portano per mano, in un viaggio che nasce dalla morbosa curiosità di quattro ragazzini di scoprire il luogo in cui è stato ritrovato il corpo di un bambino scomparso e che finisce per diventare il viaggio che dà senso a tutto: all’amicizia, ai sogni, alle paure, alla vita stessa.

Assolutamente da vedere. E capace di mantenere inalterato il suo fascino con oltre trent’anni sulle spalle (il film è del 1986).

Ottimo anche per la dieta (non guarderete mai più una torta con gli stessi occhi, dopo...).

6. L’ultima eclissi

Cinque anni dopo l’Oscar per Misery, Kathy Bates torna a regalarci i brividi che solo una grandissima attrice sa suscitare, interpretando uno dei personaggi più discussi dell’opera di King.

Ricevetti in regalo Dolores Claiborne al compleanno dell’anno di uscita in Italia e - come molti altri giovani fan di King - mi trovai spiazzata.

Il Re aveva scelto di raccontare tutta la vicenda attraverso la voce sgrammaticata (e decisamente volgare) di Dolores. Il che, all’epoca, aveva reso l’opera completamente inaspettata.

Forse anche per questo, per la “fatica” che richiese la lettura, ho amato moltissimo il film. Ma al di là delle ragioni personali, L’ultima eclissi è indubbiamente un capolavoro di recitazione.

La Bates viene affiancata da un’altra bravissima attrice, allora ancora molto giovane, nei panni della figlia Selena. Jennifer Jason Leigh dà voce a tutto il disagio insidioso nascosto dietro lo stile sgrammaticato di Dolores.

E Judy Parfitt è Vera Donovan, lo è. In tutto e per tutto. Proprio come la sognavamo.

Un film in cui i personaggi femminili sono predominanti, non necessariamente positivi e variegati. Un film che racchiude il profondo senso del fallimento materno di una donna che non ha saputo proteggere i suoi figli, dopo non averlo saputo fare con se stessa. Ma per tutti, anche per Dolores Claiborne, arriva il giorno del riscatto. E per Selena St. George, arriva quello della verità.

Da recuperare, se ve lo siete perso. E da rivedere, se già lo conoscete…

5. Carrie - Lo sguardo di Satana

Brian De Palma è da sempre il mio regista preferito. Fin da quando prese il posto di Steven Spielberg e Robert Zemeckis, con la visione di Blow Out e quella che io chiamo "perdita dell'innocenza cinematografica". Se avete visto Blow Out, sapete perché.

Molti anni dopo aver iniziato a seguire De Palma, mi sono iscritta alla Scuola di Cinema principalmente per “colpa” sua. Lo stile di De Palma è la quintessenza del cinema postmoderno, ma anche quando sperimenta il nuovo - o si attiene alle regole del classico che conosce a menadito - sforna dei capolavori.

Carrie è uno di questi. Uno dei rari casi in cui il film è al livello del romanzo, se non superiore. Caratteristica comune a parecchi fra i titoli selezionati qui.

La lunga sequenza del ballo, con la furia omicida di Sissy Spacek, è indimenticabile.

Fin dall’elemento scatenante, quello “scherzo” di pessimo gusto che le fa perdere il controllo. Ma anche la costruzione della tensione precedente, con il bullismo delle compagne e la persecuzione da parte della madre (una straordinaria Piper Laurie), contribuiscono a fare di questo film un cult del genere. Imperdibile.

4. Il miglio verde

Ci sono alcuni romanzi e alcuni film che lasciano il segno in modo indelebile.

Alcune frasi che la tua mente memorizza, imprimendo le parole stampate come un’immagine nella memoria. E associando, poi, a quell’immagine fatta di parole, i volti e i colori del film che ha dato loro vita.

Molte trasposizioni cinematografiche - soprattutto di opere in qualche modo legate al mondo soprannaturale - incorrono nello stesso errore: raccontare una storia senza esaltarne il significato.

Il film di Frank Darabont (prima di The Mist e dopo Le ali della libertà) lo ha accuratamente evitato, mettendo al centro della narrazione l’empatia, la pietà e la capacità di perdonare che Stephen King aveva così magistralmente descritto.

L’omone protagonista del racconto, il “gigante” Michael Clarke Duncan, non fa paura. Fa riflettere. Il suo “dono”, la sua condizione, gli orrori a cui ha assistito e gli equivoci che gli hanno rovinato la vita sono la linfa vitale di un grande, grande film.

Tom Hanks, David Morse, Bonnie Hunt, James Cromwell, Jeffrey DeMunn (che Darabont avrebbe poi richiamato per #The Walking Dead) e tanti altri sono i perfetti interpreti di una perfetta pellicola.

Capace di distruggerti nel profondo e di spingerti a riflettere su quanto sia deleteria la sete di vendetta e su quanto possa essere liberatorio il perdono. Anche solo per il tempo di un film.

3. Misery non deve morire

Non è da tutti saper reggere in quello che è, di fatto, un confronto a due.

Un film in cui due personaggi si fronteggiano per tutto il tempo, in un clima claustrofobico e incentrato sul rapporto morboso di una donna con i suoi romanzi preferiti e con il loro autore.

Quando Paul Sheldon rimane ferito, mentre sta tornando in città dopo essersi isolato in montagna per finire il suo ultimo romanzo, a tirarlo fuori dalla neve è Annie Wilkes. Infermiera, vuole il "caso".

Infermiera, nonché grandissima fan di Paul. La più grande fan... E l’ultima persona al mondo che avrebbe dovuto sapere che Paul ha ucciso il suo personaggio preferito nell’ultimo capitolo della saga.

Da un grande romanzo - l’ho letto più di vent’anni fa e ancora ricordo quando e dove - un grandissimo film.

Con #Kathy Bates giustamente premiata con l’Oscar e James Caan intento a dar vita al Paul Sheldon che molti di noi, leggendo Misery, avevano immaginato.

Dirige - non a caso - Rob Reiner, già alla regia di Stand by Me.

2. Shining

Stephen King, ne abbiamo parlato anche noi in questo articolo, non ha mai apprezzato il lavoro che Stanley Kubrick ha fatto sul suo romanzo.

Credo sia semplice capire perché: mentre scriveva, il re dell’horror “girava” nella sua mente un film. Con personaggi e ambienti dall’aspetto molto diversi, rispetto a quelli messi in scena da Kubrick. Come sempre accade quando gli occhi che li guardano e li creano sono diversi.

Tanto diversi da spingerlo a realizzare una sua versione di Shining (con un perdibile film TV. Perdibile, davvero).

King ha senz'altro le sue motivazioni: Shining è una sua creazione. Punto. Ci sta, che non abbia apprezzato.

Tutti noi, invece, non possiamo far altro che inchinarci di fronte a un capolavoro cinematografico, a grandiose interpretazioni (ottenute tormentando parte del cast, e in particolare Shelley Duvall, non certo Jack Nicholson, com’è noto), una maestosa costruzione della tensione e un simbolismo che rende ancora più ricco il racconto.

La “luccicanza” è il pretesto che Kubrick ha usato per raccontarci la paranoia, il seme della follia che prende piede, il passato che torna a perseguitarci e l’incubo peggiore che una famiglia possa affrontare: la violenza domestica.

Shining è “il” film di riferimento, quando si parla di trasposizioni autoriali dai lavori di Stephen King. Anche se Stephen King non è d’accordo.

1. Le ali della libertà

Ancora Frank Darabont, ancora sua la sceneggiatura (come in tutti i suoi riuscitissimi adattamenti delle opere di King), ancora un grande film.

Darabont ha il dono - non a caso sono suoi 3 film su 10, in questa selezione - di comprendere a fondo i messaggi di Stephen King, di fare suoi i personaggi come se fosse stato lui a crearli, di ricostruire alla perfezione le atmosfere e il "sapore" dei suoi romanzi.

I libri sono “sempre meglio dei film” semplicemente perché gli attori, gli ambienti e i fatti narrati al cinema hanno un aspetto diverso da quello che avevamo immaginato. 

Se accade anche con Le ali della libertà (tratto da un racconto di King), non importa. Qui l’atmosfera, la tensione, la poesia e la speranza sono così forti da travolgere tutto il resto.

Anche se il protagonista non nasce come un personaggio positivo. Anche se è circondato da delinquenti. Anche se, alla fine, non è la “giustizia” a trionfare. Non quella dell’uomo, almeno.

Perché certamente trionfa quella dello spirito. Un capolavoro da imparare a memoria, con Tim Robbins in quella che resta la sua migliore interpretazione e Morgan Freeman capace di stregarci con la sua bravura a ogni inquadratura.

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