Il sequel di Borat sta avendo problemi per l'intervista a una sopravvissuta all'Olocausto

Autore: Alessandro Zoppo ,

Borat: Subsequent Moviefilm, l'attesissimo sequel di #Borat in uscita il 23 ottobre 2020 su Amazon Prime Video, sta avendo un serio problema con gli eredi di Judith Dim Evans, ebrea tedesca-israeliana sopravvissuta all'Olocausto e scomparsa proprio poche settimane fa all'età di 88 anni.

La donna, insieme a Mike Pence e Rudy Giuliani, è stata una delle intervistate dall'indecente "giornalista" kazako interpretato da Sacha Baron Cohen nel film, che racconterà con i consueti toni politicamente scorrettissimi lo "Yankeeland" ai tempi della pandemia di Covid-19, della quarantena e dei "negazionisti" a stelle e strisce.

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Il problema è che la Evans è scomparsa prima dell'uscita del sequel e i suoi eredi hanno fatto causa ad Amazon e ai produttori di Oak Springs Productions, sostenendo che la donna non ha acconsentito all'uso commerciale della sua persona nel film.

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Secondo i figli e i nipoti della superstite alla Shoah, Cohen si sarebbe presentato "sotto mentite spoglie" (come Borat appunto) ingannando la donna senza rivelare la sua vera identità.

Dopo aver rilasciato l'intervista, la signora Evans ha appreso che il film era in realtà una commedia con l'intenzione di deridere l'Olocausto e la cultura ebraica: era inorridita e sconvolta. Se avesse saputo la vera natura del film e lo scopo dell'intervista, non avrebbe accettato di concederla.

L'attore, in realtà, pare aver trattato la Evans con una riverenza atipica, almeno rispetto al modo con cui affronta di solito le "vittime" della sua satira.

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Judith Dim Evans, nata a Beuthen nel 1932 da genitori ebrei e sopravvissuta ai campi di concentramento, è stata una nota e stimata professoressa universitaria. L'intervista nel film, stando alle anticipazioni trapelate, ha proprio la funzione di evidenziare il bigottismo antisemita di Borat con il racconto diretto della sua esperienza personale dell'Olocausto.

Il sito The Wrap riporta infatti che Cohen avrebbe rivelato la sua vera identità alla Evans subito dopo l'intervista. Una rarità che il comico non concede mai ai suoi intervistati. #Borat: Subsequent Moviefilm è inoltre dedicato alla memoria della donna.

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L'azione legale degli eredi, tuttavia, ritiene che i produttori abbiano tentato di pagare la Evans per la sua partecipazione al film e chiede un ordine restrittivo temporaneo che impedisca ad Amazon di lanciare la commedia in streaming il 23 ottobre.

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Adam L. Hoipkemier, l'avvocato della famiglia Evans, ha spiegato a The Wrap di aver fatto "diverse richieste di ogni filmato della signora Evans" ma "i produttori si sono rifiutati di fornirli".

Da Amazon Studios e Sacha Baron Cohen, per il momento, non sono arrivati commenti in merito.

L'attore, che in una recente intervista concessa a Time Magazine ha rivelato di aver rischiato la vita per girare il mockumentary quando si è infiltrato in un raduno di estrema destra per il diritto al possesso di armi, si è limitato a dire che Borat 2 affronta il "pericoloso scivolamento verso l'autoritarismo".

I bersagli sono chiari sin dal trailer, specie in vista delle elezioni del 3 novembre: il presidente Donald Trump, il neo-nazionalismo bianco e i "valori non negoziabili" della "alt-right" statunitense.

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Cohen ha detto al New York Times che "nel 2005 c'era bisogno di un personaggio come Borat, un misogino razzista e antisemita, per far sì che le persone rivelassero i loro pregiudizi interiori. Ora quei pregiudizi interiori sono palesi. I razzisti sono orgogliosi di essere razzisti".

Il mio obiettivo non è quello di denunciare il razzismo e l'antisemitismo, ma di far ridere, rivelando però il pericoloso scivolamento verso l'autoritarismo.

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Cohen ha rivelato di aver vissuto nei panni di Borat per cinque giorni, 24 ore su 24, senza mai uscire dal personaggio.

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In una delle scene in cui si presenta con la figlia 15enne, Borat cerca di ordinare una torta al cioccolato decorata con la scritta "Jews will not replace us" ("gli Ebrei non ci sostituiranno").

Nessuna derisione della cultura ebraica: lo slogan è quello che hanno cantato suprematisti e neonazisti a Charlottesville, in Virginia, dove nell'agosto del 2017 si è tenuta una manifestazione contra la rimozione di una statua del generale confederato Robert E. Lee.

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