Assassini e action psicologici: i film del brivido all'italiana aspettando Non Sono un Assassino

Autore: Emanuele Zambon ,

Uno spicchio piuttosto ampio del cinema italiano è riservato a killer seriali, macabri rituali e urla agghiaccianti. Brividi nella notte, tra lame insanguinate e assassini psicopatici che agiscono indisturbati fino all'intervento, mai così tempestivo in questi thriller in cui si mescolano giallo, horror e noir, di qualche ispettore di polizia oppure di improvvisati detective.

L'italian thrilling lega la propria fama al nome di grandi registi quali Mario Bava e Dario Argento, capaci di inaugurare tutta una serie di stilemi e cliché poi ampiamente sfruttati anche oltreoceano. Quando si parla di indagini e omicidi, poi, dalle nostre parti ci si può imbattere in pellicole che hanno in qualche modo fatto da apripista all'orgia giallo/horror anni '70. Si pensi, ad esempio, a La lama nel corpo di Lionello de Felice oppure a Il mostro di Venezia di Dino Tavella. Oppure alle varianti sul tema di grande originalità, come nel caso di In nome del padre, del figlio e della Colt, un western incentrato su un assassino che colpisce nella notte di Halloween che sembra anticipare i tratti distintivi dello slasher.

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Detto dell'ampia produzione anni '70, il giallo all'italiana ha conosciuto alti e bassi in epoca recente: da Almost Blue di Infascelli, un thriller visionario che sconta una regia da videoclip, agli ultimi mediocri lavori di Argento (Non ho sonno e Il cartaio). Ora, invece, tocca a Non Sono un Assassino di Andrea Zaccariello rinnovare la tradizione con un film rompicapo costruito attorno ad un enigmatico Riccardo Scamarcio (davvero una buona prova la sua), accusato dell'omicidio di un giudice suo amico.

I cult del brivido all'italiana

In attesa di scoprire la verità sul presunto assassino nel film in arrivo nelle sale il 30 aprile (il cui cast comprende anche Edoardo Pesce, Claudia Gerini, Alessio Boni e Sarah Felberbaum), ecco come ingannare l'hype: una lista dei migliori thriller all'italiana incentrati su assassini seriali, in cui la componente psicologica riveste grande importanza. La classifica è stata scritta a quattro mani dal sottoscritto Emanuele Zambon e dal collega Francesco Lomuscio.

La ragazza che sapeva troppo (1963)

In Italia per trascorrere una vacanza, l’americana Roman interpretata da Letícia Román si trova ad avere a che fare con una sequela di strane situazioni e delitti che riconducono al misterioso killer dell'Alfabeto, così denominato a causa delle iniziali consecutive dei cognomi delle sue vittime.

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Con John Saxon e Valentina Cortese nel cast, Mario Bava gira in bianco e nero il suo thriller hitchcockiano (il titolo vi ricorda nulla?) che non solo ambienta una sequenza nel quartiere Coppedè di Roma - dove Dario Argento avrebbe girato sette anni più tardi Inferno (con effetti speciali curati dallo stesso Bava) - ma sembra anticipare anche diversi momenti del cultissimo Profondo rosso.

Sei donne per l’assassino (1964)

Volto coperto e cappellaccio sul capo, un misterioso omicida sembra nutrire una vera e propria passione per l’eliminazione progressiva delle modelle di un atelier di alta moda.

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Una splendida fotografia, curata dallo stesso Mario Bava non accreditato insieme ad Ubaldo Terzano, punta ad impreziosire l'immagine attraverso la valorizzazione dello spettro cromatico. Il cineasta italiano firma uno dei suoi capolavori, anticipatore della corrente argentiana sia per quanto riguarda il look dell’assassino che per sequenze come quella dell’annegamento nella vasca, di sicuro influente su uno dei memorabili momenti di morte poi inclusi in Profondo rosso. Fino ad una tutt’altro che banale rivelazione finale, al servizio di quello che è, senza alcun dubbio, il maggior precursore dell'italian thrilling, esploso sei anni più tardi con L’uccello dalle piume di cristallo.

La donna del lago (1965)

Ispirato ai misteri di Alleghe (dal 1933 al 1946 si verificarono quattro omicidi, avvenuti nei pressi del lago di Alleghe e all'interno di un importante albergo del paese), La donna del lago è un ottimo noir diretto a quatto mani da Luigi Bazzoni e Franco Rossellini muovendo da un soggetto tratto dal romanzo omonimo di Giovanni Comisso. Il brivido dei segreti di provincia, una scia di sangue avvolta nel mistero, un finale aperto: la pellicola con Salvo Randone e Virna Lisi è uno dei migliori gialli di sempre.

Orgasmo (1969)

Il re del poliziesco all'italiana qui alle prese con un giallo dalle venature sexy in cui una ricca vedova americana ospita nella propria villa un giovane e sua sorella. I due spingeranno la facoltosa donna alla follia, somministrandole dei farmaci fino a spingerla al suicidio (la poveretta volerà giù dal tetto dell'abitazione). Dietro tutto ciò si nasconde un piano diabolico ideato dall'avvocato della donna per impadronirsi del suo patrimonio. Le cose, però, non andranno come previsto.

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Orgasmo, a partire dal titolo spinto, segna l'incursione di Umberto Lenzi nel thriller erotico, qui costruito - al pari dei successivi due, Così dolce... così perversa e Paranoia - sulle grazie di Carroll Baker.

L’uccello dalle piume di cristallo (1970)

Titanus
Tony Musante in una scena di L’uccello dalle piume di cristallo

Unico testimone del tentato omicidio di Monica Ranieri alias Eva Renzi, ferita all’interno della sua galleria d’arte, lo scrittore Sam Dalmas interpretato da Tony Musante si trova ad indagare, affiancato da un’amica e da un ornitologo, sulle uccisioni di tre giovani donne che sembrerebbero essere state attuate dallo stesso aggressore da lui avvistato quella sera; fino al momento in cui scopre che lo strano rumore registrato durante alcune telefonate del presunto assassino non è altri che il verso di un particolare volatile.

Con influenze provenienti sia da Mario Bava che dai capolavori di Alfred Hitchcock e Fritz Lang, Dario Argento effettua il suo gradito ingresso nell’universo della celluloide attingendo chiaramente dal romanzo "La statua che urla" di Fredric Brown, e di fatto aprendo la strada all’italian thrilling.

Supportato dalle ottime musiche di Ennio Morricone e dalla fotografia a cura del futuro premio Oscar Vittorio Storaro, il regista del brivido confeziona un racconto per immagini teso, movimentato e caratterizzato da una geniale trovata conclusiva che, pur non rientrando propriamente nell’horror, già presenta tutti gli elementi che avrebbero fatto di lui un punto di riferimento per tutti coloro che si sarebbero cimentati coi film di paura: attento rifiuto della logica, voce sibilata dell’assassino e doppio finale, con tanto di protagonista che ricorda all’ultimo momento il particolare utile alla risoluzione del caso.

La morte cammina con i tacchi alti (1971)

Non certo il più memorabile dei thriller rompicapo, ma comunque godibile. La morte cammina con i tacchi alti segue le vicende di alcuni diamanti al centro di un vero e proprio intrigo. Il film diretto da Luciano Ercoli vede protagonista Nieves Navarro, habitué dell'erotico anni '70, e Frank Wolff, splendido interprete (non solo) di western, tra cui C'era una volta il West, morto suicida a soli 43 anni. La pellicola fa parte di un trittico ideale di gialli assieme a Le foto proibite di una signora perbene e La morte accarezza a mezzanotte.

La bestia uccide a sangue freddo (1971)

Utilizzando armi medievali, un omicida dal volto coperto da un passamontagna uccide una dopo l’altra le pazienti di una clinica per patologie psico-sessuali femminili collocata in un castello.

Girato su commissione (e controvoglia) dal Fernando Di Leo che ci avrebbe regalato immediatamente dopo l’ottima trilogia noir costituita da Milano calibro 9, La mala ordina e Il boss, non è di sicuro annoverabile tra i suoi lavori più riusciti, ma merita di essere ricordato sia per la capacità di allontanarsi dagli stilemi argentiani pur sfruttando un plot da italian thrilling, sia per le audaci sequenze di sesso (ne esiste perfino una versione fornita di inserti hard) al servizio di un massacro rientrante, come Reazione a catena – Ecologia del delitto, nello stuolo di anticipatori del filone slasher.

Il coltello di ghiaccio (1972)

In visita dalla cugina Martha Caldwell, interpretata da Carroll Baker e rimasta muta a causa dello shock subito per la morte dei genitori, avvenuta in un incidente ferroviario, la famosa cantante Jenny alias Evelyn Stewart viene uccisa da un misterioso individuo nel garage della villa.

Man mano che le uccisioni aumentano, la polizia crede di giungere ad un colpevole, ma le cose non stanno affatto così in questo thriller concepito da Umberto Lenzi – dopo Sette orchidee macchiate di rosso – in seguito all’esplosione del filone argentiano.

Un filone da cui, però, pur prendendo nuovi ingredienti a cominciare dalla tematica del trauma, si distacca preferendo di evitare la violenza grafica nelle uccisioni per tornare ad abbracciare, invece, l’atmosfera classica dei primi gialli firmati da Lenzi stesso, da Orgasmo a Paranoia.

Reazione a catena – Ecologia del delitto (1971)

Nuova Linea Cinematografica
Una scena del film

Una baia è il teatro del progressivo sterminio di un gruppo di persone, tra cui quattro turisti, per mano di un ignoto assassino. Reazione a catena – Ecologia del delitto si avvale di un ricco cast comprendente, tra gli altri, Leopoldo Trieste e Laura Betti, al servizio di un genio mai troppo riconosciuto come Mario Bava. Solo lui poteva partire da un’idea in stile Agatha Christie per mettere in scena una violentissima mattanza all’arma bianca che, oltretutto impreziosita da una geniale rivelazione finale, ha finito per anticipare le caratteristiche del filone slasher, improntato su una sequela di uccisioni ai danni di un gruppo di persone in uno spazio più o meno chiuso, nato grazie ai successivi Black Christmas – Un Natale rosso sangue e Halloween – La notte delle streghe.

Per non parlare del fatto che l’innovativo omicidio della coppia infilzata con la lancia al momento dell’orgasmo è stato riproposto fedelmente nel secondo capitolo di Venerdì 13, saga la cui ambientazione è, non a caso, analoga a quella di questo capolavoro baviano.

La tarantola dal ventre nero (1971)

L'animale del titolo, già di per sé, la dice lunga sul modello di riferimento (Argento, of course). La tarantola dal ventre nero, prima che per l'angosciante vicenda raccontata, viene ricordato per l'ottimo cast e, soprattutto, per la presenza di bellezze mozzafiato nel cast: da Barbara Bouchet (il cui nudo propizia la prima uccisione) a Stefania Sandrelli, fino alle Bond Girl Barbara Bach e Claudine Auger.

Un serial killer opera con una tecnica del tutto particolare, paralizzando le vittime con uno spillo aguzzo fatto penetrare loro nella nuca. A occuparsi delle indagini è Giancarlo Giannini mentre le musiche sono di Ennio Morricone.

Lo strano vizio della signora Wardh (1971)

Edwige Fenech è Julie, donna apparentemente tranquilla innamorata del marito Neil, ovvero Alberto de Mendoza, che però a trascura. È però perseguitata dal passato amore violento e deviato – intriso di pratiche sadomasochiste – che la legava al sinistro Jean incarnato da Ivan Rassimov, il quale non ha mai accettato il suo abbandono. Ne Lo strano vizio della signora Wardh c'è pure George Hilton nei panni di George Corro, un uomo di cui Julie si innamora dopo averlo conosciuto ad una festa. 

Sergio Martino s’ispira dichiaratamente a I diabolici di Georges Clouzot e al fatto di cronaca conosciuto come il “Caso Fenaroli” per concretizzare il primo thriller della sua filmografia, ruotante, appunto, attorno ad una serie di omicidi.

Tra rasoiate e un aggressione proto-Psycho sotto la doccia, l’influenza da parte dei primi lavori di Dario Argento è evidente. Ma, oltre al fatto che qui si spinge non poco il pedale sull’erotismo (abbiamo perfino un amplesso nel fango, sotto la pioggia), non manca un’affascinante sequenza ambientata in un parco che, probabilmente derivata da una analoga presente ne L’uomo leopardo di Jacques Tourneur, ne anticipa una storica del quasi contemporaneo 4 mosche di velluto grigio. Nel film si contano diversi momenti da antologia, tra i quali merita la citazione quello del cubetto di ghiaccio posto sotto al chiavistello.

4 mosche di velluto grigio (1971)

Cecchi Gori Home Entertainment
Una scena del film

Dalle fattezze di Michael Brandon, Roberto Tobias è il batterista in un gruppo rock che, sentendosi seguito da giorni da un misterioso individuo, decide di affrontarlo direttamente all'interno di un teatro, dove lo uccide in maniera accidentale sfruttando il suo stesso pugnale; per poi trovarsi ad avere a che fare, però, con una sequela di delitti e assurde situazioni.

Dopo il non del tutto convincente Il gatto a nove code, Dario Argento chiude la sua cosiddetta "trilogia degli animali" – iniziata con L'uccello dalle piume di cristallo – mettendo in piedi una delle sue opere maggiormente riuscite, a conferma ulteriore delle proprie capacità di virtuoso della macchina da presa (l’incidente conclusivo girato a tremila fotogrammi al secondo), in grado di trasmettere raccapriccio - si pensi alla siringa conficcata nel petto - e di ideare geniali trovate finali come quella che qui, giustificando il titolo del film, consente di scoprire la non facile identità dell’assassino.

Il tutto è sostenuto da una funzionale colonna sonora firmata ancora una volta da Ennio Morricone e da un cast comprendente, tra gli altri, Bud Spencer e Mimsy Farmer.

Una lucertola con la pelle di donna (1971)

Interpretato da Stanley Baker, l’ispettore Corvin arresta la sofisticata signora londinese Carol Hammond alias Florinda Bolkan, sospettata della brutale uccisione della propria disinibita e conturbante vicina di casa, protagonista in maniera ossessiva dei suoi strani incubi; fino al momento in cui un misterioso individuo si costituisce a Scotland Yard, dichiarandosi autore dell’omicidio.

Da qui, con Corvin poco convinto dell’innocenza della donna e nuovi inquietanti indizi pronti a venire alla luce, Lucio Fulci costruisce un giallo che, al di là del titolo chiaramente atto a richiamare la “trilogia degli animali” di Dario Argento, si distacca dalla strada tracciata dal maestro romano del thriller e ne delinea una del tutto nuova e personale, fornendo anche i primi accenni di quello splatter di cui sarebbe poi divenuto poeta indiscusso.

Perché, tra lesbismo e affascinante cura estetico-fotografica, in maniera decisamente innovativa per l’epoca l’insieme procede da un lato sul binario della razionalità, dall’altro su quello dell’irrazionale, dell’onirico.

L’etrusco uccide ancora (1972)

Al di là di un titolo così così e di una tematica che rischiava di far naufragare tutto in partenza, L'etrusco uccide ancora è uno dei gialli anni '70 più riusciti, che fa dell'ambientazione e delle musiche di Riz Ortolani i suoi punti di forza.

Al macabro storico - un archeologo americano scopre una tomba etrusca nella cui cripta è raffigurato Tuchulcha (demone etrusco dell'oltretomba) mentre uccide una coppia di amanti - viene abbinato il giallo, in una maniera certamente debitoria ad Argento ma con uno stile tutto personale.  La nota stonata arriva dal protagonista, la meteora Alex Cord, un fac-simile di Maurizio Merli con un'espressività sotto la soglia del minimo. Nel ruolo del commissario, invece, troviamo Enzo Tarascio, che i più ricorderanno come lo sceriffo corrotto di Continuavano a chiamarlo Trinità. Il film diretto da Armando Crispino, tratto da un romanzo dello scrittore inglese Bryan Edgar Wallace, si avvale inoltre della presenza nel cast dell'affascinante Samantha Eggar.

Non si sevizia un paperino (1972)

Medusa Distribuzione
Barbara Bouchet e Tomas Milian nel film

Un giornalista, interpretato da Tomas Milian, si trova casualmente a risolvere il caso di tre bambini uccisi da un misterioso psicopatico in un sinistro paesino della Lucania. Con Florinda Bolkan che, dopo Una lucertola con la pelle di donna, torna al suo servizio per interpretare una presunta fattucchiera che finisce massacrata mentre "Quei giorni insieme a te" di Ornella Vanoni scorre in sottofondo, Lucio Fulci realizza il suo film più riuscito, coraggiosamente capace, ancora una volta, di allontanarsi dalla allora dilagante moda argentiana.

Non a caso, anziché sfruttare i soliti cupi toni metropolitani, privilegia una soleggiata atmosfera rurale, fascinosamente in contrasto con una vicenda dal forte (retro)gusto horror in cui non solo introduce primi accenni di splatter, ma lascia tranquillamente emergere un piuttosto feroce (sotto)testo anticlericale.

La dama rossa uccide sette volte (1972)

Thriller, giallo e horror di stampo gotico si mescolano in questo film diretto da Emilio P. Miraglia, autore anche de La notte che Evelyn uscì dalla tomba. Nel film, in cui recitano Ugo Pagliai e Barbara Bouchet, ogni cento anni la "Dama Rossa" torna a macchiare di sangue un castello della Germania, ripetendo le efferate azioni di alcuni secoli prima (la stessa uccise sette persone, l'ultima delle quali era sua sorella). Tobias Wildenbruck, l'attuale proprietario del castello, per neutralizzare la maledizione, occulta l'identità di una delle due nipote. Ma la "dama", però, torna a colpire lo stesso. Solo qualche anno dopo si arriverà alla verità.

La regia di Miraglia non è delle più memorabili, ma La dama rossa uccide sette volte offre ottimi momenti thrilling e alcune gustose parentesi raccapriccianti, innaffiando il tutto con un suggestivo tocco gotico.

I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973)

Con il volto celato sotto un passamontagna, un serial killer uccide uno dopo l’altro gli studenti dell’università di Perugia. Un affogamento in un acquitrino, un corpo segato a pezzi e sgozzamenti assortiti sono i violenti ingredienti che Sergio Martino, continuando a cavalcare l’onda del successo riscosso dai suoi thriller proto-Argento, sfrutta per concretizzare uno dei suoi lavori maggiormente riusciti, abbondantemente infarcito, come di consueto, di abbondanti nudità femminili e torbida sensualità.

Luc Merenda e Tina Aumont fanno parte del cast, man mano che risulta facile intuire come il film possa essere stato un altro anticipatore del filone slasher, ricordando anche la fase conclusiva del successivo Halloween – La notte delle streghe nell’inscenare il lungo e teso assedio pre-epilogo – dichiaratamente ispirato a Terrore cieco – cui Suzie Kendall viene sottoposta nella villa in cima ad una rupe.

Profondo rosso (1975)

Il pianista inglese Marcus Daly s’improvvisa detective dopo essere stato testimone involontario dell’omicidio di una sensitiva. Considerando che il protagonista possieda le fattezze del David Hemmings di Blow-up, è facile pensare che il classico diretto da Michelangelo Antonioni rientri tra le fonti d’ispirazione del capolavoro assoluto di Dario Argento, nonché miglior italian thrilling di sempre.

Un capolavoro - nel cast figurano anche Gabriele Lavia e Daria Nicolodi - che riesce nell’impresa di trasmettere efficacemente paura, tra inquietanti rimandi all’universo infantile e dolore emergente dalle diverse, cruente uccisioni (citiamo solo la morte con acqua bollente).

La splendida fotografia di Luigi Kuveiller e la memorabile colonna sonora a firma di Giorgio Gaslini e i Goblin di Claudio Simonetti fanno il resto, insieme alla consueta mancanza di logica che, a cominciare dalla sequenza in cui il pupazzo entra improvvisamente nella stanza di Glauco Mauri, risulta utile al fine di ottenere lo spaventoso impatto emotivo.

La casa dalle finestre che ridono (1976)

L'elemento caratterizzante, e per certi versi unico, di questo cult del thriller all'italiana risiede nell'ambientazione contadina, nell'accostamento disturbante di elementi religiosi,  e pittorici, legati in modo macabro ad alcune dicerie della bassa padana.

Quello di Pupi Avati è un thriller che sfocia nel film dell'orrore, con un finale dall'azzeccato (e indimenticabile) colpo di scena. Negli anni è divenuto - giustamente - un vero e proprio cult.

Il gatto dagli occhi di giada (1977)

Uno degli ultimi gialli anni '70 di chiara matrice argentiana (il titolo zoologico è uno dei primi indicatori): teso, per nulla banale grazie ad alcuni riferimenti novecenteschi di carattere storico/bellico, infine dotato di un buon ritmo e di un uso mai esasperato degli stilemi dello spaghetti thriller. 

Il gatto dagli occhi di giada, esordio alla regia di Antonio Bido, vede gli ottimi Corrado Pani e Franco Citti nei panni di un ingegnere improvvisatosi detective e di un latitante ingiustamente accusato di omicidio.

Tenebre (1982)

Autore del romanzo che dà il titolo al film, lo scrittore americano Peter Neal alias Anthony Franciosa viene coinvolto a Roma nelle indagini - portate avanti dal detective Germani interpretato da Giuliano Gemma - riguardanti un misterioso assassino di donne che sembrerebbe ispirarsi proprio al suo best-seller.

Grazie, come di consueto, alla geniale trovata finale, Dario Argento firma il suo secondo thriller maggiormente riuscito dopo l’insuperabile Profondo rosso, in questo caso conferendo all’insieme un’impronta quasi futuristica sfruttando come scenografia il moderno quartiere romano dell’EUR.

E, senza smentirsi, se da un lato riconferma le sue doti di virtuoso della macchina da presa attraverso momenti come quello del lungo dolly atto a descrivere il desolato edificio in cui si trovano le due ragazze omosessuali che verranno eliminate dall’omicida, dall’altro sfoggia il suo immancabile talento visivo regalandoci, tra l’altro, la memorabile uccisione di una Veronica Lario che, privata di una mano in seguito a un colpo d’ascia, schizza come una fontana ettolitri di sangue sul muro.

La colonna sonora a firma dei fidi Goblin, poi, rientra tra le loro migliori, con l’ossessivo “Paura” distorto e ripetuto più volte.

Lo squartatore di New York (1982)

Come il titolo suggerisce, nient’altro che le sanguinarie imprese di un ignoto squartatore che massacra le belle donne della Grande Mela, il quale si esprime emulando la voce di un papero dei cartoni animati.

Con un giovane Andrea Occhipinti nel cast (oggi producer di successo con Lucky Red), ecco il ritorno al thriller per Lucio Fulci, nel frattempo divenuto maestro dello splatter grazie a Zombi 2 e ai suoi tre lungometraggi ispirati alle atmosfere lovecraftiane da cui, appunto, riprende la tendenza a descrivere minuziosamente e in maniera raccapricciante i momenti delle uccisioni.

Del resto, la sola sequenza della tortura su capezzolo eseguita tramite lametta riesce a mettere a disagio perfino lo spettatore maggiormente preparato, qui alle prese con il giallo made in Italy più efferato degli anni Ottanta, efficacemente immerso in un’atmosfera squallida e malata che non manca neppure di torbido sesso ai limiti dell’hard.

La casa con la scala nel buio (1983)

Bruno (Andrea Occhipinti) è un compositore di colonne sonore che va ad abitare per alcuni mesi in una villa fuori Roma per trovare la giusta ispirazione per comporre le musiche per un thriller diretto dalla sua amica Sandra. Appena messo piede nell'abitazione, l'uomo deve fare i conti con una serie di omicidi e di misteriose sparizioni, avvenimenti che sembrano essere legati alla precedente inquilina dell'abitazione. La realtà, però, è un'altra e per decifrarla il protagonista dovrà confrontarsi proprio col film su cui sta lavorando.

Lamberto Bava, figlio d'arte, trasforma quella che inizialmente era stata girata come una miniserie TV per la Rai in un thriller dai toni che strizzano l'occhio all'horror, cosa che accadrà anche nei successivi lavori del regista, da Morirai a mezzanotte a Le foto di Gioia, decisamente inferiori a questo cult anni '80.

Phenomena (1985)

Titanus
Jennifer Connelly in Phenomena

Una giovanissima (e già apprezzabilissima) Jennifer Connelly è Jennifer, figlia di un attore che, scoperto di possedere poteri che le consentono di comunicare con gli insetti, cade nel sonnambulismo e intravede nel buio il maniaco omicida che tormenta il rigido collegio svizzero in cui è arrivata da poco.

Con il mitico Donald Pleasence nei panni di un entomologo paralitico che vive insieme a una scimmietta, Phenomena non rientra, probabilmente, tra i veri e propri capolavori di Dario Argento, ma, di sicuro, grazie alle accattivanti intuizioni di colui che si trova dietro la macchina da presa si conquista un posto nello stuolo dei thriller italiani maggiormente riusciti.

Citiamo soltanto la memorabile, iniziale decapitazione di una Fiore Argento perdutasi nella desolata campagna svizzera e l’entrata in scena del bambino mostruoso, chiaramente ripresa da quella del nano deforme di A Venezia...un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg.

Sotto il vestito niente (1985)

L’universo della moda milanese è tormentato dalle sanguinarie gesta di un assassino armato di forbici che sembra anche aver rapito una top model, con la quale è in contatto telefonico il fratello.

Carol Alt e Renée Simonsen sono le bellezze principali di Sotto il vestito niente, incursione nel thriller dello specialista in commedie Carlo Vanzina – supportato in fase di script dal fratello Enrico e dal Franco Ferrini (già sceneggiatore di C’era una volta in America) – che prende le mosse da un romanzo di Marco Parma per cimentarsi con un torbido giallo dopo aver sperimentato nel 1983 il noir di taglio spionistico tramite Mystère.

L’influenza argentiana è immancabile (abbiamo addirittura Donald Pleasence, nello stesso anno presente in Phenomena), ma si evita totalmente di accentuare violenza e dettagli raccapriccianti negli omicidi, facendo distaccare il tutto da modelli analoghi e manifestando l’evidente tentativo di conferirgli un taglio internazionale attraverso lo sguardo rivolto al cinema di Brian De Palma. 

Deliria (1987)

Fuggito da una clinica psichiatrica, un pericoloso psicopatico dal volto nascosto sotto una maschera da barbagianni s’intrufola in un teatro per sterminare uno dopo l’altro i ballerini alle prese con le prove generali di uno spettacolo.

Sotto la produzione del maestro dell’exploitation Aristide Massaccesi, meglio conosciuto come Joe D’Amato, Michele Soavi debutta dietro la macchina da presa con uno slasher che guarda sicuramente al plot di Halloween – La notte delle streghe e simili, ma capace di lasciare già emergere la propria cifra stilistica.

Claustrofobia suggerita dall’ambientazione al chiuso e violente uccisioni fanno il resto, al servizio della validissima opera prima di colui che, tra l’altro, al di là delle numerose escursioni nell’ambito del piccolo schermo, avrebbe provveduto poi a regalarci uno splendido thriller – ma rientrante in altra categoria- girando nel 2006 Arrivederci amore, ciao.

Occhi di cristallo (2004)

La paura nello sguardo, un killer venuto dal passato. Corpi spappolati, orrendamente mutilati. Occhi di cristallo è una delle migliori produzioni a tema del nuovo millennio, frutto della regia accorta e con diversi lampi di Eros Puglielli. Attorno ad un'atmosfera lugubre e ad un'ambientazione squallida e pregna di morte, il cineasta confeziona un ottimo thriller pulp incentrato su un ispettore - Luigi Lo Cascio - tormentato dal passato che torna a farsi vivo sotto forma di un metodico ed efferato serial killer, soprannominato l'Impagliatore (dal titolo del romanzo di Luca Di Fulvio da cui è tratto il film).

La ragazza del lago (2007)

Verità nascoste, ancora una volta celate in un tratto di provincia del Nord d'Italia. La ragazza del lago segna l'esordio dietro la macchina da presa di Andrea Molaioli, in passato aiuto regista di Nanni Moretti. La pellicola, ispirata al romanzo "Lo sguardo di uno sconosciuto" della scrittrice norvegese Karin Fossum, segue le vicende di un commissario di polizia - Toni Servillo - impegnato nelle indagini sull'assassinio di una giocatrice di hockey, il cui cadavere (nudo) è stato rinvenuto sulle sponde dei laghi di Fusine.

Molaioli lavora sulle simmetrie (il film è, anche, una riflessione sul rapporto padri/figli), guarda ai gialli vecchio stampo, si tiene lontano dai thriller all'italiana degli anni '70, preferendo una suspense più misurata e valorizzando l'aspetto umano della vicenda raccontata, retta in modo impeccabile da Valeria Golino e (soprattutto) da Servillo. Trionfo ai David di Donatello del 2008.

La ragazza nella nebbia (2017)

È il male il vero motore di un racconto, specie se giallo. Con una cornice montanara ad avviluppare animo e destino dei protagonisti, Donato Carrisi adatta sé stesso (ovvero il best-seller La ragazza nel lago) dando vita ad un'opera prima di grande fascino e dalle atmosfere malate, al di là di qualche passaggio a vuoto.

Ad impreziosire questo thriller cupo troviamo un cast di assoluto livello: Toni Servillo è un navigato ispettore, Alessio Boni un professore di un liceo accusato di aver rapito una giovane del posto, infine Jean Reno nei panni di uno psichiatra.

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