Mine, Armie Hammer senza via di scampo nella sabbia: la recensione

Autore: Emanuele Zambon ,

Dopo averlo visto, non sognerete mai più il fatidico "posto fisso". Scherzi a parte, Mine, l'esordio sul grande schermo dei registi Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, restituisce al Cinema italiano quel respiro internazionale che troppo spesso gli è mancato negli ultimi anni. Lo fa con una pellicola modellata con sabbia e sangue, scandita dalla tachicardia e dall'immobilismo forzato di un protagonista - l'Armie Hammer di The Lone Ranger - provato da una "serie di sfortunati eventi".

La storia vede come protagonista il cecchino dei Marines, Mike Stevens (Armie Hammer), reduce assieme al compagno Tommy Madison (Tom Cullen) da una missione fallita. I due sono in marcia verso un nuovo punto di estrazione concordato durante la fuga con il comando generale quando, inconsapevolmente, si avventurano in una zona desertica in cui sono disseminate centinaia di mine antiuomo. Il twist narrativo dai tragici risvolti non tarda ad arrivare, costringendo Mike ad assistere impotente alla morte del compagno perché bloccato su un ordigno esplosivo calpestato inavvertitamente.

Il mio piede sinistro

Da qui in poi la pellicola, dopo una frettolosa collocazione nel film di genere, vira su territori sconfinati tanto quanto la zona desolata che circonda lo sventurato protagonista. Mine tradisce l'idea stessa di Cinema (che per definizione caratterizza una serie di immagini in movimento) a favore di un hic et nunc narrativo, dando vita ad un melting pot di generi in cui convivono l'high concept movie, l'horror, il film di guerra e il dramma a tinte rosa. 

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Armie Hammer, un po' come il Tom Hardy di Locke, monopolizza inquadrature e sequenze di un film in cui la vera guerra si combatte dentro la testa del protagonista, genuflesso per la quasi totalità dei 106 minuti di durata della pellicola che lo vede attendere, inerme, l'arrivo di berberi (lo svitato, o forse no, Clint Dyer), lupi assassini e tempeste di sabbia, con la speranza stimata in 52 ore di poter ricevere soccorso dai propri commilitoni.

Eagle Pictures
Armie Hammer a un passo dalla morte in Mine

Un piccolo passo per l'uomo

Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, proprio come fece Sergio Leone con gli spaghetti western, trasformano i deserti spagnoli in un territorio mediorientale dilaniato da conflitti, maneggiando generi e macchina da presa con un'abilità disarmante, mettendo in scena la vicenda di un soldato in lotta con i propri demoni interiori. Giocano con il protagonista Mike come se fosse il telecomando di un videoregistratore: mandano indietro (frequenti i flashback, sotto forma di frammenti onirici), mettono in pausa - Mike vive una situazione di stallo fisico ed emotivo - e spingono l'alter ego di Armie Hammer "ad andare avanti" (nonostante il 7% di possibilità di sopravvivenza), invitandolo a più riprese a scrollarsi di dosso la paura di un ulteriore passo falso.

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Muovendo dagli stessi presupposti di Passo falso, diretto da Yannick Saillet, Mine ne differisce nell'esito, ai livelli di una produzione hollywoodiana a medio budget, facendosi contenitore di situazioni ed elementi già visti altrove - da The Grey con Liam Neeson a Moon di Duncan Jones - ma qui riproposti in una nuova veste, mai plagiatoria, dimostrando come il Cinema italiano - sepolto sotto la sabbia proprio come una mina antiuomo - sia in grado di esplodere in tutta la propria grandezza.

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