Cult. Dopo 6 stagioni di titoli che lasciavano chiaramente intendere quale fosse il “mostro” dell’anno (case infestate, manicomi, streghe, fenomeni da circo…) arriva #American Horror Story: Cult. Un titolo ambiguo? Macché: azzeccatissimo.
Un episodio, uno solo, e la nuova stagione della serie antologica di #Ryan Murphy e Brad Falchuk è già di culto.
La scena cult dell’anno in TV? Facile: Evan Peters che mette le patatine nel frullatore per poi spalmarsele in faccia e "travestirsi" da Trump.
Gli autori non ci girano intorno: l’elezione di Trump è una sciagura per la quale sono uno squilibrato può essere felice. Ce lo dicono a chiare lettere.
Ma c’è di più, molto di più, in questo primo episodio.
In parte, ne avevamo già parlato qui: le due situazioni contrapposte, che sottolineano le reazioni opposte dei personaggi.
Una disperata, circondata dai suoi cari. L’altro esaltato, ma solo.
Se è vero che l’intento di questa nuova stagione di #American Horror Story è sottolineare come sia sempre la realtà, a far paura più di qualsiasi mostro partorito dalla nostra fantasia, è anche vero che gli sceneggiatori usano la mano pesante.
#Ally (la sempre perfetta #Sarah Paulson) si dispera… Ma non è andata a votare. Le sue fobie gliel’hanno impedito, eppure si lamenta. Piange. Grida.
Ma non ci è andata, a esprimere il suo voto. E quando la moglie #Ivy glielo fa notare, per noi è immediato recepire il messaggio: non puoi stare seduto in poltrona e poi lamentarti di come vanno le cose.
La satira sociale, sempre presente in American Horror Story, questa volta ha un bersaglio solo: gli americani che l’hanno permesso. Quelli che non sono andati a votare, che hanno pensato di non fare la differenza, che hanno votato Trump per protesta. E che, poi, piangono.
La forte impronta politica di questa stagione, lo sapevamo già, si affianca al tema del culto delle personalità.
Perfino la sorella di Kai, #Winter Anderson, che proprio “a posto” non è, non riesce a credere che la Clinton abbia perso.
Tutte le persone di buonsenso, ci dice Murphy, sono preoccupate per il loro futuro. Tutte. Escluso Kai Anderson.
Colpisce come tutti i personaggi principali condividano la medesima opinione su Trump, dallo psichiatra ai consiglieri comunali. Tutti tranne Kai, che si dipinge la faccia di arancione per spaventare la sorella. Che si presenta in Consiglio Comunale con un discorso delirante. Che riempie un gavettone della propria urina e lo lancia a un gruppo di messicani, prendendoli in giro. Incurante del fatto che gli costerà caro.
Kai, che giura vendetta.
Non c’è niente di più pericoloso di un uomo umiliato.
In realtà qualcosa di più pericoloso c’è, e noi lo sappiamo bene.
Due ragazzi in un prato, stesi su una coperta, amoreggiano in una bella giornata di sole. E ancora prima che lei, spaventata, dica di sentirsi osservata e che lui nomini Twisty il Clown, iniziando a raccontare la sua storia del terrore, noi avevamo già capito: è bastata un’inquadratura a farci ripiombare nell’incubo di #Freak Show, e a farci capire che eravamo nelle vicinanze della roulotte di Twisty.
Non siamo rimasti delusi. Nemmeno se son passati cinquant’anni, narrativamente parlando, dal nostro primo incontro con lui.
Cult, già. Twisty è indubbiamente un personaggio di culto. #Kai con la faccia arancione di patatine, è protagonista di una scena di culto. Il colloquio con il montaggio alternato all’aspirante tata Winter, psicopatica quanto il fratello ma molto più brava a nasconderlo, è di culto.
Le allucinazioni, le fughe, il fumetto proibito del piccolo Oz, il massacro dei vicini in un’atmosfera che replica alla perfezione quella di Halloween, il detective che parla di omicidio-suicidio di fronte a una scena che grida massacro: tutto, in tutto e per tutto, è già cult.
E io non vedo l’ora che sia venerdì prossimo…
Iscriviti al nostro canale Telegram e rimani aggiornato!