American Horror Story: Cult. Recensione episodio 11 (finale di stagione)

Autore: Chiara Poli ,

Il culto delle personalità è inarrestabile. Perfino in carcere, e perfino con le gurdie, continua a diffondersi.

I leader delle sette sono inarrestabili. Questo ci racconta il finale di stagione di #American Horror Story: Cult.

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Possiamo rinchiuderli, ma non possiamo fermarli.

In qualche modo, il culto delle personalità è il cancro della nostra società.

I leader delle sette sono le superstar e com’è successo nella realtà, come la cronaca ci insegna, i carcerati non gradiscono le superstar.

L’intera stagione è costruita per ricordarci che è fin troppo facile sottovalutare questa minaccia. E che - come i boss continuano a comandare dalla galera, e come i politici compiono delle atrocità morali alla luce del sole - non possiamo fermare il fenomeno. Possiamo solo tentare di arginarlo.

L’attualità ci insegna, anzi, che in prigione i culti trovano un terreno più fertile che mai.

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Dopo averci messo in guardia sui rischi della politica, dopo averci mostrato quanto sia facile perdere la lucidità di fronte alla strumentalizzazione dei media, American Horror Story: Cult ci parla del momento in cui dovremmo sentirci al sicuro. Con i mostri rinchiusi dietro le sbarre…

Che invece sono pronti a creare altri mostri.

Noi siamo Ally

American Horror Story: Cult episodio 11
American Horror Story: Cult. Il finale di stagione

Mentre #Kai Anderson organizza la notte delle cento Tate (come Sharon Tate, ma anche come Tate, il suo personaggio nella prima stagione) col suo esercito di folli, con tanto di manichino per insegnare loro a uccidere le donne incinte e i bambini che portano in grembo, noi siamo Ally.

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#Ally Mayfair-Richards, la madre che osserva la pianificazione di un’atrocità fingendo di approvarla.

La donna che ha ucciso la persona che amava per vendetta.

La donna che manipola il manipolatore.

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La donna che ha massacrato Speedwagon e ha programmato nel dettaglio il momento in cui avrebbe detto a Kai che #Winter era innocente, per distruggerlo.

Noi siamo Ally. Noi combatteremmo con le sue stesse armi, se potessimo: vogliamo vendetta. Come lei. Vogliamo che chi ci ha fatto soffrire passi ciò che ha fatto passare a noi. 

Perché i mostri non esistonoI clown sono solo maschere. I veri mostri si nascondono dentro di noi, si annidano nella nostra anima, pronti per uscire allo scoperto quando qualcosa - o qualcuno - li scatena.

E quando Ally ferma la strage prima che abbia inizio, facendo fare irruzione all’FBI, diventa un’eroina. Una con la quale tutti vogliono farsi un selfie.

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Ma Ally ha ucciso. Ma mentito. Ha tradito. Ha fatto del male.

Perché il concetto di eroe e di mostro, ai nostri tempi, tende spesso a confondersi.

Isteria di massa

American Horror Story episodio 11
American Horror Story: Ally nel finale di stagione

Il passaggio è sottile, ma non per questo meno geniale. #Beverly Hope, il simbolo del potere dei mass media e della manipolazione che possono esercitare su di noi, si trasforma.

Diventa il mezzo per cercare la verità. Affrontando Ally, mettendola di fronte alle accuse di Kai nei suoi confronti, è lo strumento per smascherare la realtà.

Per togliere il filtro delle telecamere e del montaggio. Per mostrarci come stanno davvero le cose.

Per ricordarci che, mentre un mostro è in prigione, un altro mostro festeggia il compleanno di suo figlio.

Dopo i riferimenti alle altre stagioni (da #Murder House ad #Asylum), i due mostri vengono messi a confronto.

Il dialogo telefonico, le minacce di Kai e le vanterie di Ally sono il preludio all’ultimo, incredibile colpo di genio

L’ambizione politica di Kai si trasferisce in Ally, perché sono due facce della stessa medaglia. E quella medaglia siamo noi.

Colpiti dall’isteria di massa che ci fa sostenere qualcuno che non conosciamo affatto. Che ci prende in giro. Che ci mostra solo ciò che vuole farci vedere.

Uno dei mostri più celebri del cinema, Hannibal Lecter, diventa l’ispirazione per l’evasione di Kai.

Ma non dobbiamo lasciarci trarre in inganno: non è una questione di astuzia. E non è nemmeno una questione di genere.

Non sono il potere maschile contro quello femminile, a guidare il conflitto. C’è solo un dato di fatto, a condurlo: la certezza che, se non sei disposto a uccidere e calpestare i cadaveri dei tuoi avversari, non puoi arrivare in alto.

E questo la dice lunga su chi è al potere

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