I Am All Girls: quanto c'è di vero, nel film sudafricano Netflix?

Autore: Alessandro Zoppo ,

"Nel 1994 a Johannesburg, in Sudafrica, Gert de Jager rapì sei ragazze, mai ritrovate. Dopo l'arresto, rilasciò una video-confessione. Il governo dell'apartheid rifiutò di renderla pubblica". Si apre con queste informazioni I Am All Girls, il thriller di Donovan Marsh "ispirato a eventi realmente accaduti" e disponibile nel catalogo Netflix dal 14 maggio.

Al centro del film ci sono un terrificante traffico di minori e un killer che prende di mira gli sfruttatori, sui quali indaga la detective bianca Jodie Snyman (Erica Wessels), sull'orlo del PTSD perché troppo coinvolta e legata sentimentalmente alla collega nera della scientifica Ntombi Bapai (Hlubi Mboya).

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Ma quanto c'è di vero dietro I Am All Girls e quanto invece è stato rielaborato da Marsh con gli sceneggiatori Wayne Fitzjohn, Marcell Greeff, Emile Leuvennink e Jarrod de Jong?

La tratta delle minorenni africane

Vecchie ferite si riaprono: è il mantra che accompagna il film sudafricano, che usa le forme del cinema di genere per affrontare i temi dell'abuso pedofilo e della scomparsa di giovani donne. Una modalità narrativa già sperimentata con successo, ma ad altre latitudini, da Taylor Sheridan nel suo #I segreti di Wind River.

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Nel caso di I Am All Girls, il network di trafficanti di minori a scopo sessuale avviene nel Sudafrica di oggi, dove gli echi pericolosi dell'apartheid, lo strapotere dei bianchi (ricchi) e l'esclusione sociale dei neri (poveri) sono ancora presenti. Il rimando al passato, a quel che è successo nel 1994, non è certo casuale: quell'anno il Paese africano elegge il suo primo Presidente nero, Nelson Mandela.

Se le indagini della poliziotta Jodie sono di finzione, la tratta delle nere è una triste realtà. Lo ricordano i cartelli che chiudono il film sulla cover di Nancy Wilson di Daughter dei Pearl Jam ("Per il Dipartimento di Stato degli Usa, dalle 500mila alle 700mila donne vengono contrabbandate ogni anno: più della metà sono bambine e meno dell'1 per cento delle donne viene ritrovato") e il movimento a cui ha dato vita il film.

La produzione Nthibah Pictures ha unito le forze con organizzazioni non governative come UAHT, WEA Human Trafficking Task Force e The Salvation Army, ha lanciato il progetto "Reel to Real: More About Human Trafficking" e un sito ufficiale per combattere la violenza di genere e sensibilizzare l'opinione pubblica sull'argomento.

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Il vero Gert de Jager

La testimonianza-chiave al centro dell'indagine di Jodie e del caso che porta a scoprire i traffici dei fratelli indiani Salim e Parwaz Khan è quella di Gert de Jager, l'uomo che nel 1994, accompagnato dalla moglie, ha rapito numerose ragazzine per i bordelli di Johannesburg e per politici e pezzi grossi del governo. De Jager non esiste, ma la storia vera che ha ispirato gli sceneggiatori è quella di Gert van Rooyen, un tristemente noto serial killer pedofilo sudafricano.

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Bianco, classe 1938, Cornelius Gerhardus van Rooyen, meglio noto come "Gert", è all'apparenza una persona come tante. Nonostante abbia avuto un'infanzia difficile passata in riformatorio per dei furti di automobili, è sposato con la moglie Alina e papà di sei figli e ha un lavoro normale nella società edile dei fratelli. Nel 1979, a Pretoria, la sua vera personalità viene fuori: rapisce, picchia e stupra due bambine di 10 e 13 anni. Arrestato e condannato a quattro anni di carcere per sequestro, aggressione e violenza sessuale, esce sulla parola dopo appena tre anni.

La moglie, intanto, chiede e ottiene il divorzio e Van Rooyen nel 1988 comincia a frequentare Joey Hermina Haarhoff, divorziata e madre di tre figli. Sono la coppia perfetta: bianchi, integrati, sempre sorridenti. Almeno in apparenza. Gert trasforma l'abitazione della donna in una sorta di fortezza-prigione e la coppia fa addirittura richieste alle case famiglia della zona in cui vivono: mettono a disposizione la loro villetta-bunker per far trascorrere i fine settimana a ragazze orfane date in affidamento dai tribunali.

Tra l'agosto del 1988 e il gennaio del 1990, sei ragazze scompaiono a Pretoria, in pieno giorno e nelle vicinanze delle loro abitazioni. Sono tutte bianche e di buona famiglia, tra i 9 e i 16 anni. Si chiamano Tracy-Lee Scott-Crossley (di 14 anni), Fiona Harvey, Joan Horn e Anne-Mari Wapenaar di 12, Janet Delport di 14 e Rosa Piel di 9. A loro si aggiungono presto Odette Boucher di 11 anni e Yolanda Wessels di 13. I nomi delle bambine scomparse in I Am All Girls (così come la storia personale di Ntombi) sono quindi di finzione, ma in alcuni casi le iniziali corrispondono a quelle reali.

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La svolta arriva l'11 gennaio: Joan Booysen, una ragazza di 16 anni, viene rapita da Joey Haarhoff a Church Square, in pieno centro a Pretoria. Joan è portata a casa di Van Rooyen, dove l'uomo la violenta, la droga e la rinchiude in un armadio. Booysen riesce però a fuggire e denuncia la coppia alla polizia. Gli agenti si appostano fuori casa dei due. Quando Van Rooyen e Haarhoff escono con il loro pick-up, sono pedinati. Gert si accorge di quanto sta succedendo, accosta la macchina e tira fuori due pistole: con un revolver calibro 22 uccide la compagna Joey e con una calibro 357 si spara togliendosi la vita.

È il 15 gennaio 1990. Le dichiarazioni di testimoni e le prove forensi associano tutte le sparizioni delle ragazze, ad eccezione di quella di Rosa Piel, a Van Rooyen e Haarhoff. I corpi delle vittime non sono mai stati trovati. Nel febbraio del 2001, Flippie van Rooyen, il figlio di Gert, è riconosciuto colpevole di falsa testimonianza dal Tribunale di Pretoria: sotto giuramento ha fornito alla polizia dichiarazioni contrastanti sulle sei giovani scomparse. Flippie era già stato condannato all'ergastolo per aver ucciso una ragazzina dodicenne dello Zimbabwe. L'altro figlio di Van Rooyen, Gerhard, sconta invece 15 anni per furto e truffe.

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Con tutta probabilità, i corpi delle ragazze sono stati cremati. Il legame di Gert van Rooyen con un gruppo di pedofili che godeva della protezione della polizia è alimentato dal figlio Flippie. In una delle sue testimonianze, rivela che tre membri del National Party, il partito di estrema destra nazionalista, erano coinvolti con il padre in un giro di traffico di minori, destinati a sfruttamento sessuale e altre forme di schiavitù. Non solo: molte delle ragazze scomparse erano vendute in Medio Oriente come spose-bambine in cambio di petrolio, come suggerisce anche il film. Queste connessioni, tuttavia, non sono mai state accertate.

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I container di Durban

Il nome del ministro pedofilo del governo sudafricano coinvolto nel traffico è tuttora avvolto nel mistero, mentre i container pieni di ragazze che Jodie e il suo collega Samuel Arendse (Brendon Daniels) scoprono nel porto di Durban e collegano ai fratelli Khan, esistono davvero. Il riferimento è ad un episodio drammatico accaduto in Mozambico nel marzo del 2020.

I cadaveri di 64 migranti etiopi provenienti dal Malawi sono stati trovati in un container sul ponte di Mussacana, nella provincia di Tete. Soltanto in 14 sono sopravvissuti all'asfissia e sono stati trasportati in un centro di prima accoglienza. Il Mozambico è una delle principali vie di passaggio per raggiungere il Sudafrica, una delle economie più avanzate del continente. Il governo sudafricano sta cercando di ridurre i flussi migratori e progetta la costruzione di un muro di 40 km lungo il confine con lo Zimbabwe.

La tratta di esseri umani è l'attività criminale in maggior crescita nel mondo (vale 150 miliardi di dollari all'anno) e non riguarda soltanto i migranti. Il problema è grande e grave e con il suo film Donovan Marsh ha voluto puntare i riflettori su una delle più terrificanti tragedie dei nostri tempi: il traffico e lo sfruttamento sessuale minorile. "Tutti in questo film – spiega il regista – sono danneggiati nel profondo, nascondono una storia cruda che deve ribollire dietro gli occhi e sanguinare attraverso i loro movimenti e discorsi soffocati dal passato. Creare un'atmosfera è esattamente ciò di cui tratta il film: sconvolgere, far arrabbiare e ispirare".

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