Il 2019 al cinema: la top 10 dei film più belli dell'anno

Autore: Elisa Giudici ,

Il 2019 chiude un decennio cinematografico e lo fa con una grande fiammata di qualità. Abbiamo già avuto modo di raccontarvi nel dettaglio quali sono stati i film più belli sbarcati quest’anno nelle sale italiane nelle singole categorie: abbiamo ripercorso l’annata degli horror, dato un’occhiata alla proposta di un gigante come Disney, i thriller più ansiogeni, i cinecomic più memorabili e i gialli più intriganti. Abbiamo fatto anche qualche conto in casa Netflix, setacciando il catalogo del servizio streaming alla ricerca dei film più interessanti entrati nella libreria digitale a partire dal 2019. Ora è il momento di tirare le somme e decidere: quali sono stati i film più belli del 2019?

A seguire trovate i 10 film del 2019 più riusciti e memorabili, a mio sindacalissimo giudizio. Ho cercato di unire cinema autoriale a proposte commerciali, di guardare agli Stati Uniti senza però dimenticare l’Europa e l’Italia, di riservare un posto speciale per i generi più amati e quelli che si sono dimostrati più floridi in questa annata davvero ricca di sorprese e grandi prove. A seguire trovate una selezione di film personali, arrabbiati, innamorati, divertenti, ma soprattutto con qualcosa di davvero forte da dire. Film che avreste dovuto vedere nel 2019 e che siete ancora in tempo a recuperare, al cinema o sulle piattaforme streaming. Ecco i 10 film migliori del 2019.

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C'era una volta a… Hollywood

Persino un eterno ragazzo terribile come Quentin Tarantino è costretto a crescere, ma il riflesso che la sua maturità ha donato al suo cinema è sorprendente. C’era una volta a…Hollywood è tutto fuorché un film perfetto, con un montaggio opinabile e un ritmo traballante, dilatato. È un Tarantino malinconico, quasi crepuscolare quello che dilata le scene della sua pellicola omaggio alla Hollywood di Sharon Tate e di Roman Polanski, alla ricerca di un’atmosfera, di un tableau, più che della solita, bruciante scena perfetta. Sul lato della sceneggiatura il regista si rivela un grande sarto, come sempre: i ruoli di Leonardo DiCaprio e Brad Pitt li fanno letteralmente risplendere, amplificando i pregi e smorzando i difetti di entrambe le star, le lunghe parentesi al ranch della Famiglia di Manson e le brevi scene dedicate a Margot Robbie sanno infondere ora tensione, ora un’aura di puro romanticismo che da lui stenteremmo ad aspettarci.

Certo il mondo fuori dal cinema di Tarantino è cambiato, così come la sua sensibilità: il passare del tempo comincia a rinchiudere le versioni alternative della realtà del regista in una scatola etichettata come “passato”. Tarantino però è un grande cineasta la cui forza risiede nel rendere ogni progetto una faccenda maledettamente personale, così come Scorsese con The Irishman. C’era una volta a…Hollywood è un’appassionata dichiarazione d’amore al cinema, un momento cristallizzato e dilatato fino a cancellare il suo brutale epilogo: come tale, risplende molto più di tante pellicole dalla precisione millimetrica, ma senza un grammo d’anima.

Cena con delitto - Knives Out

Una perla rara, un film totalmente originale scritto pensando al grande schermo, senza risorse letterarie o remake da opere precedenti. Rian Johnson si conferma un ottimo creativo e un grande sceneggiatore, uno dei pochi rimasti in ambito commerciale con la voglia di fare cose nuove e mettersi alla prova. Knives Out è figlio del suo amore per il genere delle detective stories a tutto tondo, capace di abbracciarlo nella sua interezza: dal giallo classico di Agatha Christie fino alle incarnazioni televisive più pop.

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Come giallo sa valorizzare un cast stellare di cui si sfruttano più le doti che il glamour, facendo divertire grandi attori alle prese con ruoli sopra le righe e confermando che Daniel Craig (che per questo ruolo ha ottenuto una nomination ai Golden Globe) non avrà problemi a scrollarsi di dosso la pesante eredità bondiana. Sarebbe già un gran bel film di genere così, con questo delitto a porta chiusa dallo svolgimento insolito e dalla risoluzione brillante. Johnson però ci mette dentro anche un’irrisione degli Stati Uniti sempre più classisti ed egoisti di oggi, trasformando il suo giallo all’inglese in un grande film a tutto tondo.

Dolor y gloria

Pur essendo uscito sconfitto dal Festival di Cannes, Pedro Almodovar ne rimane il vincitore morale, con un film personalissimo, sospeso tra l’addio alle scene e l'autobiografia di un’onesta brutale. In Dolor y Gloria il cineasta spagnolo solleva il velo della fiction dalla sua opera e dalla sua vita, raccontandosi attraverso la storia fittizia del suo alter ego. L'altro Pedro è diviso tra un’infanzia povera ma stimolante e una vecchiaia percorsa dalla malattia e dal dolore. Per chi è cresciuto con i suoi film Dolor y gloria è la soluzione di un enigma, la mappa che permette di unire i punti nascosti nei suoi film e vederci dentro l’anima di Almodovar.

La gloria è ai margini, il dolore fisico e spirituale diventa il grande protagonista, per un cinema che da carnale si è fatto corporeo, quasi ascetico. Il dolore del corpo aiuta Almodovar a conoscere sé stesso; raccontandolo ci aiuta a (ri)scoprirlo. Impossibile non citare la performance strabiliante di Antonio Banderas, amico e collaboratore ormai pluridecennale del regista, che qui dà la performance della sua carriera. Un’interpretazione mimetica, caricata dall’affetto e dalla stima che l’interprete prova per il suo regista. Un film toccante, talvolta durissimo, soprattutto potente.

Il primo re

Sul film italiano dell’anno invece non ho dubbi. Anche se non sono mancate pellicole autoriali tra il discreto e il molto buono (Il traditore, La paranza dei bambini e Martin Eden) e persino qualche ritorno alla tradizione italiana orrorifica (Il signor diavolo e The Nest), nessuna ha dimostrato l’ambizione del film di Matteo Rovere, che si conferma un grande regista di generi da noi purtroppo trascurati o dimenticati. Con la storia di Romolo e Remo si misura col kolossal e con il racconto storico, sapendo gestire alla perfezione scene di grandi spettacolarità (l’alluvione iniziale) a passaggi action tutt’altro che timidi.

Il primo re racconta la genesi dell’italianità stessa ma senza pesantezza e senza roboanti fanfare, restituendo una dimensione ambigua propria dell’oracolo e del mito, osando persino un parlato in latino antico unito a una pellicola con più di un’ambizione commerciale. Alessandro Borghi si conferma un interprete cresciuto, pieno di carisma e carattere. Con tutta la sua ambizione di non sfigurare rispetto alle produzioni americane e di non cedere al loro stile scopiazzandole, Rovere è un nome prezioso nel panorama italiano. Uno che forse nemmeno ci meritiamo.

Midsommar - Il villaggio dei dannati

Se c’è un genere che nel 2019 ha dimostrato un’insaziabile fame di novità è quello horror, in particolare nella sua accezione più cinefila. Non sono mancati i tanti film commerciali che puntano sugli spaventi improvvisi e che finiscono per formare un’offerta indistinta e una massa di film indistinguibili tra loro, certo, ma anche sul fronte indie e autoriale le novità sono state ambiziose, autorevoli. Fino all’ultimo sono stata indecisa se inserire in classifica il nuovo film di Ari Aster o Noi di Jordan Peele. Entrambi i film sono riusciti (pur con qualche pecca), entrambi portano con sé un messaggio molto forte e forzano in qualche modo i confini classici del genere. Alla fine ho deciso di inserire Midsommar perché l’ho trovato una potentissima analisi sul lutto e sul dolore. Trascinato da una Florence Pugh sensazionale, che salva il film da un cast discutibile e da tutta una serie d’insensatezze, Midsommar stupisce sul fronte visivo con una serie di costumi e visioni che sperimentano con le lenti della cinepresa, con le cromie e le asimmetrie dell’immagine.

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Sarebbe un vuoto esercizio estetico se Pugh non ci mettesse l’anima e se Ari Aster non guardasse a viso aperto il processo terribile ma altamente catartico con cui ognuno di noi ha affrontato la fine di una storia d’amore, il terrore della solitudine, lo strappo netto da un “insieme” a un “solo”. Midsommar è un viaggio nell'incubo, fino a quel momento miracoloso in cui la ferita smette di sanguinare ed è una rinascita, è primavera. Il tutto viene comparato al lutto, confermando l’interesse di questo cineasta statunitense per raccontare la morte per immagini, guardandola dritta in faccia, senza orpelli, senza manierismi. Con Storia di un matrimonio, Midsommar forma una straordinaria doppietta per ricordarci che smettere d'amare è impossibile, chiudere una storia d’amore è difficile, ma alle volte è la scelta giusta.

Parasite

Si è preso il suo tempo Bong Joon-ho, misurando limiti e confini del gusto e della sensibilità occidentale con film come Snowpiercer e Okja. Poi è tornato in Corea del Sud, ha messo su un cast incredibile di grandi attori autoctoni e ha tirato fuori il miglior compromesso possibile tra peculiarità del cinema coreano e sensibilità del pubblico occidentale. Pazienza se il messaggio di Parasite risulta semplificato (quando non semplicistico) rispetto a quello delle sue precedenti pellicole o di altri grandi registi che sempre a Cannes avevano trattato lo stesso argomento (vedi alla voce Sorry we missed you di Ken Loach).

Parasite arriva nel momento in cui la Corea del Sud è terribilmente cool in ambito pop e culturale, con un film sospeso alla perfezione tra commedia nera e thriller, ricco di ironia, satira e tensione. Se poi si rivelerà anche uno sprone a recuperare la notevole filmografia coreana di Bong Joon-ho e a far parlare un po’ meno inglese gli Academy Awards, allora sarà ancor di più una dolce vittoria.

Ritratto della giovane in fiamme

Il film più rivoluzionario del 2019 lo ha diretto una sceneggiatrice e regista francese, Céline Sciamma. Tutto nasce dal desiderio di dirigere un pugno di scene, trasformate in oltre tre anni di scrittura in una sceneggiatura che ribalta la prospettiva. Al posto che costruire il crescendo del suo film sul conflitto, Sciamma punta sull’uguaglianza tra protagoniste per raccontare una stupenda storia d'amicizia, d'amore e d'arte. Nel farlo scardina il costrutto rigido e manieristico del film in costume, liberando la sua ricostruzione storica di tante pesantezze.

Attraverso una storia apparentemente semplice - una pittrice deve ritrarre una giovane donna promessa sposa a un nobile milanese senza che questa se ne accorga - Sciamma rivela grandi fiammate, parlando del rapporto tra pubblico e arte, tra donna e costrizioni sociali, mostrando un amore senza differenze di potere, persino un aborto scardinato del suo potere drammatico. Non da ultimo, fa risplendere anche il talento della sua musa Adèle Haenel, al fianco di un’altrettanto intensa Noémie Merlant.

Shazam!

Nel mare magnum dei cinecomics il 2020 è stato un anno di pausa se così si può dire, date le martellanti e continue uscite dedicate. Marvel ha concentrato tutte le sue energie su Endgame, smorzando i toni e le ambizioni dei film venuti prima e dopo. Warner Bros si è risollevata grazie un fenomeno come quello di Joker che nemmeno lei si aspettava o sperava di ritrovarsi a gestire, con incassi strabilianti e l’indicazione di tentare la strada di cinecomics un po’ più adulti e un po’ meno concilianti. Contro il gigantismo produttivo e narrativo di questi successi ho scelto di mettere in luce un film a tema supereroi che a mio modo di vedere ha saputo equilibrare alla grande il versante ironico e autoironico, quello action ma soprattutto i messaggi propositivi che rivolge al proprio pubblico. Shazam! è un film che fa poche cose, ma le fa davvero bene, senza strafare.

Per sua natura è una pellicola ironica in cui un ragazzino si ritrova i poteri (e il corpo) di un adulto, ma questo cambiamento viene sfruttato in maniera brillante, non banale e senza quell’insopportabile autoironia da meme che ormai ammorba tutto il genere. Riesce anche a piazzare una serie di interpreti giovani molto brillanti (su tutti l’ottimo Jack Dylan Grazer), a gestire al meglio Zachary Levi, a creare un villain che dà slancio al film puntando su un grande attore dotato come Mark Strong. Shazam! gestisce azione e pericolo senza calcare la mano sulla drammaticità degli eventi e, non da ultimo, sceglie di parlare di famiglia in maniera moderna e lontana dagli stereotipi.

Storia di un matrimonio

Che annata di cinema ci ha regalato Netflix, sfornando due dei film migliori del 2019. Così come The Irishman, Storia di un matrimonio trae la sua forza dall’essere una storia estremamente personale, rivelatrice dell’anima del suo regista. Non è la prima volta che Noah Baumbach racconta l’amore per l’arte e per le persone nel microcosmo newyorkese, ma stavolta si siede sul lettino e analizza, irride e accusa sé stesso, la relazione finita con Jennifer Jason Leigh, il suo rapporto con un’altra mente creativa e femminile come quella dell’attuale compagna Greta Gerwig.

S’intitola Marriage Story, anche se in apparenza racconta la fine di un matrimonio, guadando il pantano emotivo e umano della coppia che scoppia, dello strazio burocratico e legale della separazione. In realtà il titolo è perfetto, perché Baumbach racconta davvero l’amore tra Nicole e Charlie, come si trasforma per permettere a lei di realizzarsi professionalmente, a lui di vedere i suoi errori, al figlio Henry e a tutto uno stuolo di parenti, amici e avvocati di entrare in un nuovo affresco familiare. A rimanere immutato è solo l’affetto sincero che l’uomo prova nei confronti della donna e viceversa, dopo aver visto i rispettivi lati peggiori.

È una grande prova autoriale e attoriale (Scarlett Johansson è splendida, Adam Driver ancora di più) ma è anche un film che parla davvero a tutti, riuscendo a farli ridere e piangere. Storia di un matrimonio è catartico per come fa ripiombare in quei momenti in cui abbiamo detto e fatto le cose peggiori, salvandoci con una risata e con la speranza di un amore diverso ma non meno intenso. 

The Irishman

Nell’anno dei grandi vecchi del cinema alle prese con il loro testamento filmico (Polanski, Allen, Almodovar) è Martin Scorsese a regalare l’addio cinematografico più riuscito del 2019. The Irishman è una delle sue prove migliori di sempre e, considerando la carriera di Scorsese, è un’affermazione forte, rivelatrice circa la qualità del suo ultimo film.

Dentro The Irishman c’è la summa di un’intera epoca di cinema e di storia americana. È lo stadio finale del genere gangster movie, è un ritratto biografico del cinema italoamericano e delle icone del crimine che ha raccontato per decenni. Qui sono tutte riunite, così come si ritrovano tutti insieme gli attori che hanno reso grande un’epoca hollywoodiana: De Niro, Al Pacino, ma soprattutto Joe Pesci. Nel dietro le quinte si mormora che il suo ritiro dal mondo del cinema sia stato dettato dalle precarie condizioni di salute. Non avrebbe detto sì a nessun altro, a parte all'amico Martin.

Scorsese ha regalato a lui il ruolo della vita (altra affermazione piuttosto forte) e a sé stesso uno dei suoi lavori migliori, il più lucido, che guarda in faccia alla morte (una delle grandi protagoniste della pellicola) senza paura, sicuro della sua lealtà al mestiere, conscio di quanto sacrificato per eccellere nello stesso. Scorsese ci regala un film immenso e la piccola speranza di una porta aperta sul futuro cinematografico. 

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