Intervista a Giorgio Amitrano: il mio Giappone sospeso tra sublime e pop

Autore: Elisa Giudici ,

Mentre intorno a noi i milanesi corrono di qua e di là laboriosi e indaffarati, Giorgio Amitrano e io ci gustiamo una pausa pomeridiana in un caffè di una delle zone più animate della città. Rilassato e brillante conversatore, Giorgio Amitrano non sembra davvero un autore nel pieno della concitazione del tour promozionale per il suo nuovo libro. A tradirlo c'è solo l'impeccabile eleganza del completo che indossa, che potrebbe però essere un'attitudine innata, così come è spontanea la capacità di arricchire la conversazione più banale di aneddoti, considerazioni e riflessioni, dettaglio che tradisce subito i suoi trascorsi accademici. 

Approfitto del momento delle ordinazioni per raccontare a uno dei più celebri nipponisti italiani - una figura chiave per il successo di autori come Haruki Murakami e Banana Yoshimoto nel nostro Paese - di come un altro piccolo pezzo di Giappone sia approdato a Milano, dove di recente è stato aperto un matcha caffè. Lui sembra appena stupito, poi mi confessa di non amare particolarmente il sapore amarognolo del tè da cerimonia giapponese, di preferire quello "verde comune", che in Giappone si consuma anche durante i pasti. In Iro Iro, il suo primo libro sul Giappone dove smette i panni dell'accademico e del traduttore per raccontare il suo incontro personale con il Sol Levante, viene raccontata una cerimonia del tè molto particolare, l'emozione provata al primo assaggio della celebre bevanda verdissima e torbida, avvenuto quando era ancora studente a Roma. 

Elisa Giudici
Giorgio Amitrano
Giorgio Amitrano, celebre nipponista e traduttore, racconta il suo Giappone in Iro Iro

Il tè solo uno dei tanti terreni in cui l'esperienza personale del nippofilo e dell'ex studente di lingue orientali incontra un accademico dalla profonda e trasversale conoscenza del Sol Levante. Amitrano conosce le espressioni letterarie e culturali più elevate del Giappone, ma dimostra di apprezzare anche il risvolto più pop e popolare. Tra le pagine di Iro iro, una guida tematica, accessibile e mai banale allo scenario quotidiano e culturale giapponese, s'intuisce spesso come Amitrano sia ancora capace di sorprendersi e gioire delle piccole e grandi scoperte che l'Arcipelago è sempre in grado di riservare, anche a chi lo studia e frequenta da anni. 

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Iro iro non è un termine giapponese così comune: cosa significa e perché lo ha scelto come titolo del suo libro?

Ho scelto questa parola giapponese come titolo del mio libro per una serie di ragioni variegate come il suo significato. Innanzitutto ha una bella sonorità, risulta accattivante all’orecchio degli italiani. Come significato, Iro iro somiglia al francese pot-pourri, indica varietà e moltitudine. È una parola di uso quotidiano, ma è anche un termine nobile, che viene usato sin dai tempi dei grandi autori di letteratura classica nipponica. È un termine che incarna bene lo stile rapsodico del libro, che tocca una serie di argomenti con un fluire naturale, senza un struttura troppo rigorosa.

Dobbiamo aspettarci quindi un libro di non fiction, una sorta di saggio venato di digressioni che sconfinano nel memoir?

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Ci sarebbe una parola giapponese perfetta per descrivere il genere del mio romanzo: zuihitsu, che denota lo scorrere del pennello intriso d’inchiostro sulla carta. In Giappone si definisce così un filone narrativot tradizionale, un genere a cavallo tra fiction e non fiction, caratterizzato proprio dal fluire dei pensieri e della scrittura. La risposta più sorprendente dei primi lettori è che ha anche un lato involontariamente poetico, proprio come i titoli più celebri di quella corrente.

Iro iro è il suo primo scritto di carattere squisitamente personale, dove il lettore scopre non solo la sensibilità giapponese, ma anche quella dello scrittore. Come mai ha deciso proprio ora di scrivere qualcosa di tanto personale?

Il libro è nato su proposta della casa editrice, che voleva un titolo sul Giappone divulgativo ma dai contenuti qualitativamente irreprensibili. Io questo libro ce l’avevo dentro di me da tanti anni, ma ho preferito dedicarmi ai scritti accademici e alla traduzione, raccontare il Giappone da “dietro le quinte”. Quando è arrivata la proposta di DeA Planeta di scrivere un libro divulgativo sul Giappone, ho capito che era arrivato il momento di raccontare questa nazione attraverso le mie esperienze. Mi piace scrivere in maniera semplice e accessibile, anche se nell’atto concreto della scrittura non è per nulla facile. 

Anche una sua collega, la traduttrice Antonietta Pastore, ha intrapreso un percorso simile. 

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Credo che a me e ad Antonietta sia successa la stessa cosa: in noi c’è sempre stata la propensione mai espressa alla scrittura soggettiva, che poi si è fusa con la passione per il Giappone, protagonista dei nostri percorsi. In effetti scrivo da una vita; l’unica vera novità è la forma diretta e più personale, la voglia di raccontare persone incontrate e esperienze vissute in Sol Levante.

In Iro Iro si sente quasi l'urgenza di raccontare il Giappone nelle sue declinazioni alte e in quelle più pop. 

Quando ci si approccia al Giappone si ha l’impressione che la sua cultura abbia un’anima molto alta che tende al sublime e un’incarnazione più pop. Vivendo il Paese e la sua tradizione dall’interno, si capisce rapidamente che persino questa divisione non esiste più, c’è solo una grande capacità di esprimersi e raccontarsi. È una nazione che sa ritrarre sé stessa in maniera efficace, in vari campi.

DeA Planeta
La copertina di Iro Iro
Giorgio Amitrano racconta il suo Giappone, tra pop e sublime, in Iro Iro

Lei ha vissuto per anni in Giappone. Esiste ancora quella distanza culturale tra Roma e Tokyo che i tanti studiosi ed esploratori dei decenni passati annotavano nelle loro memorie? 

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Ho vissuto un decennio in Giappone e mi reco spesso nel Sol Levante. All’epoca tornare in Italia per qualche giorno dopo essere stato in Giappone per mesi e mesi era un vero e proprio shock, sembrava di essere sbalzato in un mondo differente. Oggi con internet non c’è più questo senso di distacco totale, il rientro è molto meno traumatico. Trovo che in Italia ci si sia molto avvicinati al Giappone, è diventata una nazione familiare, che tutti frequentano grazie ai manga, alla letteratura, ai cartoni animati. Tante vicende sociali e culturali lo hanno reso più comprensibile e vicino, ma la sua diversità è impossibile da cancellare anche per la globalizzazione. I negozi delle grandi catene multinazionali ci sono anche nel centro di Tokyo, ma basta entrarci per ricevere un’accoglienza, una gestualità, uno sguardo radicalmente differenti da quelli degli esercizi commerciali italiani. Credo che questa singolarità giapponese (e italiana) sia impossibile da cancellare ed è una fortuna.

Come sono i giovani giapponesi di oggi? Spesso vengono descritti come conformisti e meno interessati all'esterno rispetto al passato.

Il periodo delle forti ribellioni dei giovani giapponesi sembra completamente superato, per quanto il ribellarsi è per sua natura imprevedibile. Quella però sembra ormai una fase storica conclusa e per certi versi irripetibile. La sensazione attuale è che i giovani siano poco coinvolti politicamente e socialmente, siano ripiegati su sé stessi. Lo testimonia anche un fenomeno drammatico come quello degli hikikomori. Questa sorta di reclusione volontaria ha un nome giapponese, ma ormai è registrata in molte nazioni. Come spesso accade, i giapponesi sono riusciti a mettere a fuoco questo malessere giovanile prima degli altri.

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È vero che i giovani giapponesi di oggi sono meno avventurosi ed esitano ad andare all’estero rispetto ai loro genitori. In Giappone si parla di giovani “erbivori”, poco interessati anche alla sessualità. La sensazione però non è così forte frequentando la società: quando vidi il film d’animazione Your Name ero in un sala cinematografica piena di giovani di cui percepivo chiaramente la partecipazione e la commozione.

Lei ha tradotto tantissimi romanzi giapponesi per il pubblico italiano, dai capolavori del Novecento alle voci più fresche: quali sono le firme giapponesi da tenere d'occhio?

Ci sono nuovi autori interessanti che cominciano a venire fuori anche in Italia. Uno su tutti è Hideo Furukawa, di cui in Italia sono disponibili solo Belka e Tokyo Soundtrack per Sellerio, ma che in patria vanta una produzione molto ampia. Feltrinelli ha pubblicato uno scrittore interessante di nome Yoshida Shuichi, che vale la pena tenere d’occhio. Nello scenario di genere, Kirino Natsuo è una scrittrice di gialli importante in patria, ormai pubblicata in Italia con una certa regolarità

Un altro fenomeno che arricchisce la scelta e la scena è quello dei ripescaggi di pregio. Ho accolto con grande gioia la ristampa di Tokyo Express di Matsumoto Seichō. È uno scrittore che amo leggere per i suoi congegni narrativi raffinati e pieni d’inventiva.

In Iro Iro dichiara di amare molto anche i manga. Come li ha scoperti? Quali sono i suoi autori preferiti?

Mi piacciono autori vintage, come per esempio il papà dei manga Osamu Tezuka. Ho avuto anche un breve ma indimenticabile incontro con lui. Ho conosciuto anche Takahata Isao e spero di avere prima o poi l’occasione di incontrare Hayao Miyazaki, così come successo per le mangaka Yamazaki Mari e Moto Hagio. L’aspetto più sorprendente è che sono tutte persone molto affabili e simpatiche, che non fanno pesare la propria fama o altissima autorialità.

Quando Banana Yoshimoto mi introdusse a Moho Hagio mi disse “è a livello di Dostoevskij”. Rimasi perplesso, ma quando lessi i suoi manga capii cosa intendeva: questa mangaka ha un’immaginazione e una volontà narrativa nel gestire trame molto complesse propria dei grandi della letteratura.

In Iro Iro spiega molti concetti giapponesi riconducendoli a termini della lingua del Sol Levante. Ne scelga uno a lei caro e lo racconti ai nostri lettori. 

Kaizen. È un concetto giapponese su cui avrei voluto scrivere più approfonditamente nel volume. Significa miglioramento e racconta il bisogno della società giapponese di continuare a diventare più funzionale, efficiente e gentile verso chi ne fa parte.

A proposito di parole, uno degli aspetti più impegnativi della revisione con gli editor è stato proprio di tipo terminologico. Abbiamo discusso a lungo se tradurre o no i termini giapponesi: il termine sushi ormai non ha bisogno di presentazioni, ma kawaii? Gli appassionati la usano diffusamente, ma è una parola che davvero conoscono tutti?

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