Le serie TV si stanno contraendo, finalmente

Autore: Vincenzo Recupero ,

Ormai da qualche anno le serie televisive spadroneggiano nell’industria dell’intrattenimento. Fatti di cronaca, videogiochi, romanzi, film, fumetti (di supereroi e non), prodotti originali e remake di vecchie serie TV (vedi #MacGyver o #Magnum P.I.)... l’offerta è spaventosa e qualsiasi storia diventa serializzabile.

Dopo aver imposto il loro strapotere sul pubblico, però, ultimamente le serie hanno iniziato a perdere pezzi, o meglio: a perdere minuti.

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Nel recente passato il formato seriale dominante era quello da 22-24 episodi, una durata che consentiva alle TV commerciali di riempire il palinsesto per quasi sei mesi con una singola stagione di ciascuno show. Era proprio questo i formato delle prime stagioni di #Lost, serie che più di ogni altra ha mostrato al pubblico televisivo del nuovo millennio che le serie potevano diventare fenomeno di massa.

ABC
Il John Locke di Lost
John Locke, uno tra i più amati personaggi di Lost

Ma un po’ tutti gli show TV che hanno caratterizzato i primi anni 2000, da Prison Break a Desperate Housewives, passando per  le complicate giornate in real time dell’agente dell’anti-terrorismo Jack Bauer in #24 viaggiavano sullo stesso corposo minutaggio stagionale.

Differente formato avevano invece le serie televisive prodotte dai canali via cavo: I Soprano, Nip/Tuck, The Shield, prediligevano stagioni da tredici episodi ciascuna.

La decompressione narrativa offerta dalla serializzazione spesso ha giovato alle storie raccontate  consentendo a diversi generi, prima considerati prevalentemente cinematografici, di farsi largo sul piccolo schermo. E così il drama ha trovato il suo apripista ne I Soprano, la space opera ha acquisito spessore con Battlestar Galactica e il fantasy ha avuto la sua consacrazione con Game of Thrones. Talvolta, però, più che la decompressione sono state le esigenze di produzione a comandare sul formato, nel tentativo di sfruttare il più possibile un marchio di successo. Quando è successo, l’aumento del numero di episodi ha avuto un effetto nefasto sugli show: i casi più recenti sono il tamarrissimo e divertente Into The Badlands, un wuxiapian post-apocalittico glamour, che è passato dai sei episodi della prima stagione ai ben sedici della terza, andando così incontro ad un inesorabile calo qualitativo con conseguente cancellazione. Stesso destino toccato a Vikings che, dopo tre stagioni da dieci episodi ciascuna, ha perso coesione quando ha raddoppiato il numero di episodi passando addirittura a venti.

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Certo, va detto che talvolta è vero il discorso opposto: la riduzione del numero di episodi delle ultime due stagioni di Game of Thrones ha rappresentato la principale criticità di una serie che fino alla season 6 era una corazzata con un impianto narrativo granitico e che invece, nelle battute finali, sembrava viaggiare con il tasto fast forward inceppato ad un ritmo che non le era mai appartenuto. Quello da dieci episodi l’anno, nel caso di Game of Thrones, era il formato perfetto.

Variabili che sono condizionate dal fatto che oggi viviamo le serie televisive in modo molto diverso rispetto al passato. L’offerta è aumentata in modo esponenziale, ne vediamo molte di più e – è inevitabile – ci stancano più facilmente. Sempre più di rado le serie restano in programmazione nel corso di quattro-sei mesi, principalmente perché servizi di streaming come Amazon e Netflix rilasciano intere stagioni al day-one. Per tutti questi motivi si è arrivati ad una notevole contrazione del numero di episodi che vanno a comporre ciascuna stagione di uno show.

La stessa Netflix partì commissionando nei suoi primi originals stagioni da tredici episodi, era il caso di House of Cards, Orange Is The New Black e Daredevil. Oggi, invece, difficilmente va oltre i dieci episodi stagionali, vedi Narcos, Ozark, Mindhunter, The Umbrella Academy o Stranger Things che di episodi ne ha addirittura solo otto-nove a stagione. A beneficiare di questa scelta sono ritmo e compattezza narrativa.

A proposito di contrazione della durata, nel 2018 ha fatto inspiegabilmente rumore il formato di Homecoming, serie Amazon che vedeva Julia Roberts immersa in un thriller psicologico caratterizzato dalle stranianti regie di Sam Esmail, creatore di Mr Robot. Homecoming, a differenza di quanto avviene con qualunque drama televisivo i cui episodi durano in media 50 minuti o più, è composto da dieci episodi di lunghezza variabile, da 25 a 35 minuti. Chi l’ha detto che un drama deve avere episodi da un’ora? Sono canoni che la televisione non dovrebbe mai autoimporsi, facendosi invece guidare dalle esigenze di sceneggiatura.

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Ma il più significativo effetto di questa nuova tendenza è la produzione sempre più frequente di serie antologiche e miniserie.

Spesso (soprattutto nel genere crime), non ha senso stiracchiare su più stagioni un intreccio narrativo: ecco allora che torna in auge il formato antologico – un nuovo racconto e nuovi protagonisti per ogni stagione – tanto in voga negli anni Sessanta con serie di culto come Ai confini della realtà e Alfred Hitchcock presenta. Oggi True Detective, Fargo, #American Crime Story, The Terror, Black Mirror, sono solo alcuni dei più felici esponenti di questo formato sempre più presente in televisione.

Per quanto riguarda invece gli one-shot non è un caso che la rivelazione TV di questa prima metà del 2019 sia Chernobyl, miniserie HBO sul disastro nucleare che ha colpito l’URSS (e non solo) nel 1986. Un vero e proprio gioiello di scrittura. 

E negli ultimi mesi sono state proprio le miniserie a fare la parte del leone sul piccolo schermo. Prima è arrivata Catch-22, co-prodotta da Hulu e Sky Italia e con George Clooney nella tripla veste di attore, regista e produttore esecutivo. Catch-22 riadatta in sei episodi il romanzo di Joseph Heller il cui nucleo principale ruota attorno al paradosso del Comma 22 che recita “chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. Un espediente per mettere in scena la grottesca ed ineludibile circolarità della burocrazia sotto le armi di cui resta vittima il protagonista, il soldato John "Yo Yo" Yossarian, che non riesce ad ottenere il congedo perché la quota missioni necessaria per tornare a casa viene sistematicamente alzata.

Hulu - Sky Italia
Yossarian, protagonista di Catch-22
Christopher Abbott è John

Degna di nota anche Good Omens di Amazon, altro adattamento in sei puntate di un romanzo, Buona Apocalisse a tutti di Neil Gaiman e Terry Pratchett. Good Omens è una dissacrante commedia che fa satira biblica in cui la secolare amicizia tra l’angelo Aziraphale (Michael Sheen) ed il diavolo Crowley (l’amatissimo David Tennant) è l’unica speranza contro l’imminente armageddon.

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Infine un’altra recente ed imperdibile mini è When They See Us (Netflix), quattro episodi per raccontare la vera storia dei cosiddetti Central Park Five, cinque adolescenti (quattro afroamericani ed un ispanico) prima accusati e poi condannati “a tavolino” dell’aggressione e dello stupro di una ragazza che faceva jogging a Central Park nel 1989. La sceneggiatrice e regista di When They See Us, Ava DuVernay, colpisce nel segno mostrando le assurde storture del sistema giudiziario e le contraddizioni della polizia utilizzando uno storytelling asciutto che ricorda quello di The Wire (anche se qui siamo di fronte a una storia vera). 

Alla luce di quanto detto, non possiamo non accorgerci di come sia radicalmente cambiato il nostro modo di vivere le serie televisive nell’ultimo decennio. Da appuntamenti semestrali che andavano avanti negli anni "finché ce n’era", le serie hanno cambiato pelle diventando, sempre più spesso, prodotti confezionati su misura sul tipo di storia che si vuole raccontare. Il conseguente aumento della qualità media dell’offerta è evidente.

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Le storie, riportate al centro dell’attenzione, sentitamente ringraziano.

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