Lost in Progress: il finale di serie

Autore: Redazione NoSpoiler ,

Quella nella foto qui sopra è casa mia. E quella sono io con uno dei miei cani. Sì: mi sono fatta stampare uno striscione con la foto-simbolo di Lost, ci ho fatto scrivere sopra “We Have to Go Back!”, dopodiché l’ho appeso alla ringhiera del mio terrazzo. E lì deve restare, almeno per un altro po’.
Lost è finito. Niente più attese, niente più teorie, niente più cliffhanger… Ma tanto, tanto altro. Su Facebook, sul mio blog e su Twitter ho scritto: “You did it. The perfect finale. Thank you”. È così che riassumo il mio giudizio sul finale di serie, che ho visto insieme a mio marito e alle mie due labrador, assonnate e confuse dai miei singhiozzi alle 6.00 di stamattina.

Sì, perché io ho attaccato a piangere sulla prima immagine di The End. E ho smesso… Ho smesso? No. Sono stata travolta da un vortice di immagini e di pensieri emozionanti. E sì, certo: il finale non mi ha molto sorpresa. Ho visto ciò che mi aspettavo di vedere: il sacrificio di Jack, la “reunion” di tutti i losties “in un’altra vita”, la non-partecipazione di Ben all’evento (nonostante il perdono di Locke: la giustizia, in tv, ha regole ferree), Kate e Sawyer che si salvano insieme, Juliet in veste di ex moglie di Jack… e Vincent. Che è comparso (perché anche sugli animali ci sono regole ferree, in tv), alla fine, esattamente nel momento in cui mi aspettavo di rivederlo.

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Ora. Di fronte a me ho due alternative: commentare tutti i fatti che abbiamo visto nel finale di serie, dando vita ad un Lost in Progress infinito, oppure limitarmi a qualche considerazione “emozionale”… Perché non c’è più niente da spiegare: abbiamo capito tutti. Ora sappiamo. Quindi scelgo la seconda ipotesi: per discutere del resto, dei dettagli, qui sul Magazine di Fox avremo tutto il tempo, con tanti altri articoli nei giorni a venire (potrei scriverne uno intero solo sulla composizione dell’inquadratura con Christian davanti alla vetrata della Chiesa, o sull’occhio di Jack che si era aperto nel pilot e si è chiuso nel finale, per dire).

Mi aspettavo Vincent, dicevo, così come mi aspettavo ogni mossa di Jack – inclusi i suoi ripetuti tentativi di non vedere. L'eroe riluttante. L’eroe catalizzatore. Il difetto tragico. La rielaborazione del mito. Eccoli lì, fra le mani degli interpreti e degli autori che maneggiavano con cautela anche il mio cuore di fan. Mani sapienti e geniali perché sì, è vero: il finale di Lost, in un certo senso, è scontato. Ciò che mi aspettavo di vedere io era anche ciò che milioni di altre persone nel mondo si aspettavano di vedere. Ed ecco dove sta la genialità: ci aspettiamo le scelte più ovvie, e gli autori che fanno? Ce lo dicono apertamente, facendo commentare alla Nemesi la scelta di Jack come sostituto di Jacob. “Una scelta un po’ ovvia”, dice. Vero. Ma anche l’unica possibile.

E’ così che io considero questo finale di serie: ovvio, in diverse occasioni, ma anche inevitabile. L’unico finale possibile, coerente, l’unico che torna con tutto. Quello che potevamo aspettarci fin dall’inizio, insomma. E nonostante questo, un finale incredibilmente emozionante. Tutti i momenti-rivelazione dei losties che si ritrovano sono legati a momenti indimenticabili. L’amore, insieme all’equilibrio (fra bene e male, bianco e nero, sogno e realtà…), è la chiave. Soprattutto, dimostra che tutto era già scritto. Il destino di ogni personaggio era segnato e nel corso di questi sei anni gli autori non hanno fatto che disseminare indizi utili a seguire il percorso di ciascun personaggio. Perché quello che conta davvero in Lost, come questo finale ha sottolineato, non è la storia. Sono le relazioni, i legami fra i personaggi.

Personaggi fantastici. Sorprendenti ma coerenti. Imprevedibili ma verosimili. Umani, insomma, poiché l’umanità, con tutte le sue imperfezioni, i suoi difetti, i suoi errori e le sue seconde opportunità (“Ti perdono”) è la luce dell’isola. Il cuore dell’isola. Il nostro cuore.
Abbiamo passato 6 anni incollati al televisore per seguire le storie dei personaggi che ci avevano rubato il cuore, elaborando teorie su una storia che, in fondo, non conta poi molto.
Ciò che conta sono le emozioni che Lost ci ha regalato, dimostrando che perfino un telefilm è in grado di aprirci la mente. Lost ci ha permesso di conoscere tanti altri appassionati, di entrare in contatto con loro scambiando opinioni e costruendo teorie. Lost ha dato vita, nella realtà, a migliaia di legami. Io ci vedo un disegno preciso, in tutto questo. La volontà di far corrispondere, in un caso unico, realtà e finzione. La realtà dell’isola corrisponde alla realtà di Los Angeles (tutto è successo. Non è un sogno. Non è una presa in giro) e la realtà di Lost corrisponde alla nostra, quella vera, che ci ha fatti piangere, ridere, sorridere, tremare, gridare…

Lo dimostra il fatto che oggi, su Facebook, gran parte dei miei amici sfoggiavano una foto del profilo Lost-inspired. Lo dimostra il fatto che stando qui per tanti anni, con voi, mi sono sentita come se il mio gruppo Lost (quello che mi ha accompagnata nella visione delle varie stagioni, fino a quest’ultima che ho seguito da sola) fosse costituito da migliaia di persone. Abbiamo provato, chi più chi meno, le stesse emozioni. Abbiamo pensato cose diverse ma abbiamo avuto voglia, tutti, di condividerle. E i personaggi di Lost, le loro azioni e le loro parole ora sono parte di noi. Per sempre.

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Rimangono tante domande. Non abbiamo visto Michael e Walt, ad esempio. Non ci hanno spiegato molto, come il pulsante e i 108 minuti. Non c’erano Ana Lucia e tanti altri: non c’erano tutti (in qualche caso per problemi di scelte degli attori). Ma c’erano quelli che contavano davvero. Quelli che sono arrivati all’isola in modi diversi, incluso un Richard finalmente mortale. E anche una Nemesi finalmente mortale. Io penso che la mortalità offerta agli immortali di Lost sia stata accolta come un dono: la luce dell’isola è la scintilla della vita, il dono più prezioso che possediamo. Un dono che va condiviso con altre persone, per goderne appieno.

Per questo i losties hanno “creato un luogo” in cui riunirsi in un’altra vita. Un’altra vita che dà speranza. Per questo colui che ci ha guidati dall’inizio alla fine di questa grande avventura (che voleva insegnarci a condividere e lo ha fatto, grazie ai tanti spazi come questo, anche nella realtà) si chiama Jack Shephard. Che suona come Shepherd. Pastore. E sempre per questo, anche se tanti interrogativi rimangono aperti (Widmore, cosa succede – e quando – a Ben e Hugo sull’isola, perché abbiamo visto l’isola sommersa all’inizio, e tante altri), Lost ha raggiunto il suo scopo.

Post Scriptum: LOST IN PROGRESS
“Croce e delizia”: così ho sempre considerato questo appuntamento. Fin dal giorno, qualche anno fa, in cui ho inviato alla redazione del Magazine di Fox una e-mail con scritto “Che ne direste se la mattina dopo la messa in onda pubblicassi un commento all’episodio?”. Fin da quel giorno ho amato e temuto questo spazio: fare il commento ufficiale a una serie come Lost è tanto stimolante quanto spaventoso. Siete migliaia, lì fuori, (giustamente) pronti a cogliermi in fallo. E io sono una, una sola voce: sono in minoranza, anche se il mio scopo era parlare con voi. Commentare insieme. Così ho optato per l’unica soluzione valida: usare questo spazio per condividere (e non uso questo termine a caso) le mie emozioni. Penso di esserci riuscita, e vi sono grata per avermi aiutata a farlo.
C’è ancora tanto da dire, come ho scritto qui sopra. Se vorrete lo faremo insieme. Di nuovo.
Ad ogni modo, grazie.
A tutti voi.
Dei commenti, dei complimenti, delle critiche.
Grazie. Di cuore.
A un’altra vita, fratelli.

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