USS Indianapolis, la storia vera dietro al film con Nicolas Cage

Autore: Silvia Artana ,

C'è un momento ne Lo squalo di Steven Spielberg in cui Quint racconta allo sceriffo Brody e a Matt Hooper la drammatica storia di una nave da guerra USA affondata dai giapponesi e dell'equipaggio falcidiato dalla lunga deriva in mare in balia degli squali. Quella storia è la storia della USS Indianapolis (CA-35).

La tragedia dell'incrociatore pesante della United States Navy è la seconda più grave in termini di perdita di vite umane dopo quella della USS Arizona (BB-39), distrutta durante l'attacco a Pearl Harbor, ed è entrata a fare tristemente parte della cultura di massa.

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La letteratura, il teatro, la TV e il cinema hanno ricostruito e ripercorso l'episodio con numerose opere e nel 2016 è stata la volta del lungometraggio USS Indianapolis (USS Indianapolis: Men of Courage) con Nicolas Cage.

Al netto delle (inevitabili) licenze narrative, la pellicola è piuttosto aderente ai fatti. Ma se volete saperne di più, qui trovate la storia vera dietro al film.

La storia della USS Indianapolis

La storia della USS Indianapolis è stata un tragico insieme di coincidenze, sfortuna, incompetenza e burocrazia.

Simon & Schuster
Il libro sulla storia vera della USS Indianapolis di Lynn Vincent e Sara Vladic
Il libro Indianapolis: The True Story of the Worst Sea Disaster in USS Naval History and the Fifty Year Fight to Exonerate an Innocent Man

Il 31 marzo 1945, nel mezzo della battaglia di Okinawa, la nave è stata colpita dalla bomba sganciata da un caccia giapponese. L'ordigno ha ucciso 9 marinai e danneggiato gli assi delle eliche, i serbatoi del carburante e l'impianto di distillazione dell'acqua. L'incrociatore ha abbandonato il combattimento e ha fatto rotta verso la base di Mare Island, in California, per le riparazioni. 

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Lo stop obbligato è sembrato a tutti gli effetti la fine della guerra per la USS Indianapolis. Ma il Progetto Manhattan ha cambiato tutto. Gli USA avevano intenzione di colpire il Giappone con la bomba atomica per fermare il conflitto e c'era bisogno di portare alcuni componenti alla base di Tinian, nell'Arcipelago delle Marianne, per completare l'armanento degli ordigni "little boy" e "fat boy", che sarebbero stati sganciati dai bombardieri Enola Gay e BOCK'SCAR su Hiroshima e Nagasaki.

Il 15 luglio, il vice ammiraglio William Purnell ha convocato il comandante della USS Indianapolis, il capitano Charles B. McVay III, e ha affidato il trasporto a lui e alla sua nave. La missione era classificata e l'ufficiale è stato tenuto all'oscuro della natura dei due contenitori cilindrici e della grande cassa che sono stati caricati sull'incrociatore.

La nave è salpata alla volta di Tinian, ha fatto scalo a Pearl Harbour ed è arrivata a destinazione il 26 luglio. Dopo avere scaricato la spedizione top secret, la USS Indianapolis ha fatto rotta verso Guam e da lì si è preparata a raggiungere Leytem, nelle Filippine, per unirsi alla task force dell'ammiraglio McCormick. McVay si è informato sul rischio di essere intercettato dai giapponesi, ma il commodoro James Carter lo ha rassicurato: "La situazione è molto tranquilla. Il nemico è alle corde e non c'è nulla di cui preoccuparsi". 

Photograph was received by the Naval Photographic Science Laboratory on 24 August 1945. Official U.S. Navy Photograph, now in the collections of the National Archives.
La nave USS Indianapolis
L'equipaggio della USS Indianapolis

Ma la realtà dei fatti era diversa. Il pericolo di un attacco subacqueo era classificato "non lieve" e l'incrociatore ha pagato drammaticamente le conseguenze dell'errata valutazione. Mentre navigava senza scorta, alla velocità moderata di 17 miglia e senza zigzagare, è stato intercettato dal sottomarino giapponese I-58 del comandante Mochitsura Hashimoto. L'ufficiale ha deciso di non utilizzare i Kaiten (siluri guidati da un pilota) e ha attaccato la USS Indianapolis con una salva di siluri convenzionali. Due hanno colpito sulla fiancata l'incrociatore, che è rimasto senza elettricità e ha iniziato ad allagarsi. Erano i primi minuti della mattina del 30 luglio.

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La nave si è trasformata rapidamente in un inferno di fuoco e di acqua, ma gli addetti alle comunicazioni sono riusciti comunque a inviare un segnale di soccorso. Tuttavia, le 3 stazioni che lo hanno ricevuto lo hanno ignorato.

La USS Indianapolis è affondata in 12 minuti. Dei 1.196 uomini dell'equipaggio, circa 300 sono rimasti intrappolati sull'incrociatore, mentre circa 900 si sono buttati in acqua. Da quel momento, per loro è iniziato un incubo.

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I sopravvissuti si sono ritrovati immersi in una enorme, appiccicosa chiazza di olio e combustibile, con un numero di zattere e giubbotti di salvataggio inadeguato e razioni di emergenza insufficienti. Ma soprattutto, si sono resi conto con orrore di essere circondati da centinaia di squali. Le enormi bestie attaccavano al mattino, passavano il giorno a nuotare tra feriti e cadaveri e tornavano alla carica di notte. E questo per tutti i 4 lunghi giorni in cui gli uomini sono restati in balie delle onde. 

La mancanza di acqua e la disidratazione si sono rivelati nemici altrettanto pericolosi. Molti tra i sopravvissuti sono impazziti, hanno iniziato ad avere le allucinazioni e a nuotare verso una salvezza che non esisteva. Altri si sono lasciati semplicemente andare.

U.S. Naval History and Heritage Command Photograph
La nave USS Indianapolis
La nave USS Indianapolis in un porto del Pacifico nell'ottobre del 1944

Dopo che l'allarme lanciato il 31 luglio da un aereo di trasporto in merito ad alcuni razzi di segnalazione è stato ignorato, tutto sembrava perduto. Fino a che, la mattina del 2 agosto, il bombardiere e pattugliatore marittimo Lockheed B-34 Ventura, pilotato dal tenente Wilbur C. Gwinn, ha sorvolato la chiazza di olio e carburante. Inizialmente, l'ufficiale ha pensato a un sottomarino giapponese e si è preparato a sganciare delle bombe di profondità. Ma poi ha visto i superstiti, ha abortito l'attacco e ha dato l'allarme.

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Dalla base di Peleliu, nell'Oceano Pacifico, si è alzato in volo l'idrovolante PBY Catalina del comandante Adrian Marks, che è partito alla ricerca di circa 30 uomini. Ma ben presto, è diventato chiaro che il disastro aveva dimensioni molto più grandi. La conferma è arrivata quando la base di Leyte ha comunicato che l'incrociatore USS Indianapolis non era mai arrivato a destinazione e l'ammiraglio McCormick ha dichiarato che non si era mai unito alla sua task force.

Marks ha allertato il cacciatorpediniere Cecil J. Doyle (DE-368), che si trovava in zona, e il comandante della nave ha deciso in autonomia di fare rotta sul luogo del disastro per prestare aiuto. Marks ha fatto lo stesso e ha ammarato (danneggiando in maniera irreparabile il suo velivolo) per permettere ai superstiti di salire sulla carlinga dell'aereo. Inoltre, ha radunato le zattere vicino all'apparecchio. Poco dopo, sul luogo è arrivato un gruppo di altre unità marittime.

Le ricerche sono proseguite fino all'8 agosto. Alla fine i sopravvissuti sono stati 316 su 1.196.

Le testimonianze dei sopravvissuti

Quella della USS Indianapolis è una storia terribile e prende contorni ancora più drammatici nelle testimonianze dei sopravvissuti, come quella del capitano Charles B. McVay III. L'ufficiale ha parlato del momento in cui l'incrociatore si è inabissato:

Nel giro di pochi minuti, avevo acqua e olio bollente sulla nuca. Mi guardai intorno, sentii un fruscio e la nave non c'era più. [...] Era buio e sentivo gli uomini che gridavano aiuto. 

McVay ha ricordato anche la tragedia dei sopravvissuti:

Gli uomini che facevano parte del gruppo [più grande, n.d.r.] avevano allucinazioni di massa. C'è una storia di 3 o 4 che si sono allontanati con il buio e sono tornati alla mattina e hanno detto che la USS Indianapolis non era davvero affondata, che era vicina e ci avevano trascorso la notte. [Hanno raccontato che c'erano, n.d.r.] latte fresco, succo di pomodoro e acqua. Molti di quel gruppo sono morti di stanchezza. Altri hanno bevuto l'acqua di mare e sono impazziti. Dicevano che vedevano gli squali nuotare sotto di loro.

Uno dei membri dell'equipaggio, Edgar Harrell, ha raccontato l'orrore degli squali:

In qualsiasi momento potevi vedere grandi pinne che ti nuotavano intorno. All'improvviso sentivi un grido, c'era sangue dappertutto e vedevi lo squalo che trascinava sott'acqua qualcuno.

E come lui, anche Eugene Morgan:

Gli squali non ci hanno mai dato tregua. C'era una rete da cargo con degli elementi di polistirolo attaccati per galleggiare e sopra c'erano 15 uomini. A un certo punto, è stata attaccata da 10 squali e non è rimasto nulla. 

Photograph was released 14 August 1945. Official U.S. Navy Photograph, now in the collections of the National Archives.
Il salvataggio dei sopravvissuti della USS Indianapolis
I soccorsi ai sopravvissuti della USS Indianapolis

Un altro sopravvissuto, Dick Thelen, ha ricordato il dramma della mancanza di acqua e della disidratazione:

Molti semplicemente crollavano. Bevevano l'acqua di mare, si arrendevano o nuotavano verso isole immaginarie. [...] Allontanarsi dal gruppo significava morire quasi per certo. Chi si è allontanato è stato attaccato dagli squali, ha bevuto l'acqua di mare o è stato trascinato via dalle correnti.

E ha rivelato cosa lo ha tenuto in vita:

Avevo 17 anni quando mio padre ha firmato per me i documenti per imbarcarmi. Quando ho completato l'addestramento, mi ha accompagnato in stazione, mi ha stretto la mano, mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha detto: 'Voglio che torni a casa, Dick'. Io ho risposto: 'Dai, papà, la guerra è quai finita. Non ti preoccupare'. Quando ero in acqua e stavo per arrendermi, ho rivisto la faccia di mio padre e non l'ho fatto. E sono tornato a casa.

La storia del capitano Charles B. McVay III

Il capitano Charles B. McVay III è sopravvissuto all'affondamento della USS Indianapolis, ma la sua storia ha avuto un epilogo tragico.

A novembre del 1945, l'ufficiale è stato sottoposto a corte marziale (unico tra i 700 comandanti delle navi USA affondate durante la guerra) ed è stato trovato colpevole di avere "messo a rischio la nave rinunciando a zigzagare". In seguito, l'ammiraglio Chester Nimitz ha annullato la sentenza e ha riabilitato McVay al servizio attivo. Ma il linciaggio morale dei familiari dei membri dell'equipaggio morti ha spinto l'uomo al suicidio. Nel novembre del 1968, McVay si è sparato con la pistola di ordinanza.

Una tragedia nella tragedia, dal momento che per la maggior parte dei sopravvissuti il capitano non solo non aveva responsabilità, ma aveva prestato aiuto in molti modi e fatto coraggio ai suoi sottoposti nei 4 lunghi giorni in mare. E ancora di più perché, dopo la guerra, il comandante Mochitsura Hashimoto ha dichiarato che la manovra a zig zag non sarebbe servita a evitare i siluri ed è emerso che il comando USA sapeva della presenza di un sottomarino nelle acque dove incrociava la USS Indianapolis.

Charles McVay è stato riabilitato nel 2002, con una risoluzione firmata da Bill Clinton.

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Via: History Channel, War History Online, CNN, Forbes, Naval History and Heritage Command

Photographs from Bureau of Ships Collection in the U.S. National Archives on Naval History and Heritage Command

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